Sbagliato impiccare Alì il chimico

Alì il Chimico era un aguzzino, della peggior specie. E meritava di essere punito. Ma perché privarlo della vita e con un metodo barbaro come l’impiccagione? Sono domande che troveranno poca risonanza tra i media europei e nessuna tra quelli americani. Anzi, gli Usa reagiranno con sollievo, forse qualcuno persino con giubilo, dimenticando peraltro che la più pesante delle quattro condanne capitali è stata comminata per il massacro di cinquemila curdi commesso nel 1988, quando Saddam non era ancora il «nuovo Hitler», ma un solido alleato di Washington.
Certo, quando vediamo le immagini di un dissidente cinese giustiziato con un colpo di pistola in testa, o quelle, strazianti, di due lapidati in Iran per aver avuto rapporti extraconiugali, l’Occidente inorridisce e protesta con una sola voce. Giustamente.
L’indignazione, però, non può variare in funzione dell’identità del boia. Siamo tolleranti o addirittura compiaciuti se il giustiziere appartiene a un Paese che ci è amico, scandalizzati se è un nemico. Così, proprio non va. Perlomeno non va per noi europei.
Il Vecchio continente ha dietro di sé una storia di grandi conquiste e di indicibili orrori e solo dopo l’Olocausto siamo riusciti ad abbandonare i nostri anacronistici sogni di conquista e di dominio degli altri popoli. Nell’Unione Europea è ormai consolidato il rifiuto della pena di morte; che non va confuso con un atteggiamento debole e rinunciatario nei confronti di chi viola la legge. Al contrario: più è grave il crimine, più severa deve essere la condanna. Ma con un limite invalicabile: la vita.
In un consesso di Paesi che nonostante si sia dato una moneta unica, continua a litigare e a dividersi su molti temi cruciali, su questo punto si registra una straordinaria convergenza, che unisce credenti e atei, destra e sinistra, Paesi del nord e del sud. L’Europa, la vecchia, declinante e talvolta un po’ cinica Europa, ritiene che la rinuncia alla pena capitale sia una conquista di straordinaria civiltà, per quanto grave e odioso sia il delitto commesso.
Ed è ora che la questione venga affrontata senza ipocrisie con un Paese amico come gli Usa, dove invece i colpevoli di reati gravi continuano ad essere condannati a morte. Sia chiaro: gli americani hanno diritto di comportarsi come meglio credono, ma una discrasia così palese nuoce alla credibilità dell’Occidente. Come possiamo denunciare la Cina, l’Arabia Saudita, l’Iran, la Corea del Nord, se poi anche la grande America manda i detenuti sul lettino del non ritorno?
E come facciamo a promuovere la riconciliazione in Paesi lacerati da secolari conflitti etnici e religiosi, se tolleriamo che al boia spetti l’ultima parola? Non è necessario scomodare gli antropologi per sapere che in Stati arretrati e, nel fondo, tribali come l’Irak questa “Giustizia” non fa che alimentare un desiderio di vendetta che dura nel tempo, talvolta per generazioni.

Lo sciita Moqtada Al Sadr ha atteso oltre 25 anni per punire chi uccise suo nonno. Ora migliaia di sunniti non sognano che di potersi rivalere sugli “aguzzini” di oggi con altrettanta ferocia.
E così la legge del taglione si protrae nel tempo, in un ciclo senza senso.

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