Ildar Abdrazakov, 46 anni il 26 settembre, è il miglior basso in circolazione, tale per voce e intelligenza interpretativa. Lo ricordiamo fiero, in sella al cavallo, che attraversa il palcoscenico della Scala nei panni di Attila, spettacolo in mondovisione per l'apertura di stagione del 2018. Sarà di nuovo lui a incarnare il ruolo del titolo - Boris Godunov di Musorgskij/Pukin - della prossima «Prima della Scala»: il Super Bowl della lirica, puntuale ogni 7 dicembre. Il sovrintendente della Scala, Dominique Meyer, al suo insediarsi confessò il desiderio di mettere in scena questo capolavoro russo ma solo se Ildar Abdrazakov avesse assicurato la sua presenza. Senza un basso spettacolare, il Boris non s'ha da fare. Lui ha detto sì, e anche i colleghi russi del cast, mentre i due cantanti ucraini previsti inizialmente hanno dovuto rinunciare per amor patrio, o meglio: è la patria che proibisce di condividere il palcoscenico con i colleghi russi. I diktat da Kiev stanno interessando teatri, sale da concerto, e pure autori russi (vietato il Lago dei Cigni di Cajovskij al corpo di ballo ucraino in trasferta a Ferrara e Vicenza), la derussificazione ha avuto il suo sigillo nelle recenti leggi che negano la distribuzione di libri e musica russi. Abdrazakov è cresciuto a Ufa, negli Urali, dopo anni a San Pietroburgo ora vive a Mosca. Animato da una dirompente vitalità e con un'ironia che lo salva dalle megalomanie d'artista, ha una vita piuttosto piena. Si parte dall'infilata di matrimoni, il primo con la cantante del Mariinskij Olga Trifonova, il successivo con la diva Olga Borodina più grande di lui di 13 anni, poi nel 2016 è convolato a nozze con Marika Gvilava, conduttrice televisiva ed attrice nel cast di Viktor al fianco di Depardieu. Cinque figli. È un fuoriclasse, plurimedagliato, per la verità il premio ricevuto da Vladimir Putin gli sta complicando la vita professionale in alcuni teatri. «Alcuni» appunto, perché altri come la Scala, il Festival di Salisburgo, dove ha trionfato diretto da Muti, l'Arena di Verona, dove è stato il cantante più applaudito del gala per Placido Domingo, vanno dritti alla sostanza e oltre il velo dell'ipocrisia sapendo che questo basso è garanzia d'una serata d'Arte.
Partiamo dal nome. Ildar è facile, ma come si pronuncia il cognome? Circolano più versioni.
«Semplice: Abdrazàkov. Basta mettere l'accento sull'ultima a».
Il mese scorso ha debuttato all'Arena di Verona davanti a 10 mila spettatori, cinque volte tanto la media di un teatro d'opera. L'attrae o un po' la spaventa il bagno di folla?
«È impressionante cantare in un luogo così carico di storia e di quelle dimensioni. Ogni pietra racconta qualcosa. È stata una serata indimenticabile anche perché dividevo il palcoscenico con Placido Domingo».
... che è di nuovo nella bufera (ndr per libertinaggio). Al di là degli ultimi scandali, Placido Domingo cosa è stato per l'opera?
«Placido Domingo è una leggenda, e sono grato di aver avuto la fortuna di conoscerlo e di esibirmi con lui. Ogni volta che si sale sul palco con questi maestri, si impara. Apprendi la precisione del gesto, l'intonazione, l'arte di lavorare con la voce ma anche con l'orchestra. Placido ha stabilito uno standard molto alto, ed è questo il suo lascito, sta a noi mantenere l'asticella alta anche in futuro».
Al timone dell'Arena di Verona c'è Cecilia Gasdia. Al Festival di Pentecoste di Salisburgo e all'Opera di Monte-Carlo troviamo Cecilia Bartoli. Fa la differenza la presenza di un sovrintendente che è pure artista?
«Chi conosce l'intera cucina del teatro, avendola sperimentata al suo interno, comprende meglio i bisogni dei cantanti, rende la loro permanenza sul palco più confortevole. Quindi sì, di base, c'è una maggiore comprensione di tutti i processi».
Quest'estate è stato Boris Godunov al Mariinskij di Vladivostok, nella Russia più estrema, a pochi chilometri da Cina e Corea del Nord. Cosa vuol dire essere Boris in Russia?
«È importante che in ogni Paese si ascolti la musica dei propri compositori. Questa è storia, questa è cultura. Accanto ai capolavori dei classici mondiali, in Russia vanno proposte opere del repertorio nazionale da Tschaikovskij a Musorgskij, Rimsky-Korsakov. Anche in Italia penso sia necessario ascoltare i vostri autori. Il Boris Godunov a Vladivostok è stato un grande evento per l'alto livello della compagnia e per come ha risposto il pubblico. Non avevo mai cantato questo ruolo al Teatro Mariinskij così come quest'opera non era mai stata messa in scena a Vladivostok, quindi presentarla per primo mi ha reso felice».
Dati i tempi, forse non è semplice per un artista russo mettersi nei panni dello zar Boris Godunov sui palcoscenici d'Europa. Sarebbe meno complicato essere Filippo II e Mefistofele. È così?
«Sono grato che i teatri europei, Scala compresa, non abbiano cambiato i loro piani e che dunque Boris verrà allestito. È poi un'altra questione se i registi lo leggono come un personaggio storico del passato oppure come un individuo vicino al presente. Credo che solo comprendendo il modo di essere del personaggio e conoscendone la storia, un artista possa immedesimarsi nel ruolo e dedicarsi veramente allo spettacolo e alla musica. Spero che il pubblico verrà alla prima della Scala proprio per la musica».
Spesso dà voce e corpo a uomini assetati di potere, questo il destino del basso. Convivere con questi personaggi che idea ha maturato, in lei, del potere?
«Il teatro d'opera è pieno di personaggi bramosi di potere i cui destini, comunque, sono tutt'altro che invidiabili. Deduco, dunque, che alla fine il potere è più un peso che una benedizione. In questo senso sono grato per la mia vita artistica, perché una volta lasciato il palcoscenico posso tornare a essere me stesso: un cantante d'opera, un uomo d'arte».
Trova che il popolo russo ritratto da Musorgskij abbia aspetti in comune con l'attuale?
«È difficile paragonare una persona del XXI secolo con una dell'epoca di Boris Godunov (1551-1605). Anche Pukin e Musorgskij osservavano gli individui del tempo attraverso il prisma del proprio secolo. Ma credo che i tratti caratteristici dell'anima di un popolo, ammesso che si possa usare un concetto del genere in questo caso, non siano suscettibili di grandi cambiamenti anche a distanza di secoli».
In luglio ha lavorato con Valery Gergiev, artista che dal 24 febbraio non dirige più in Europa e America. L'Occidente lo ha respinto, ma Gergiev continua a tener viva la fiamma musicale in Russia, la sua agenda è piena.
«Valery Abisalovich è un musicista di enorme talento, che ha sempre dedicato molto tempo a ciò che accade al Teatro Mariinskij, non solo a San Pietroburgo, ma anche nelle sue succursali. Ha fatto numerose tournée nel Paese, anche in regioni molto remote. Non credo che la fiamma musicale in Russia scemerà finché avrà motori così energici».
La vita dell'artista russo si è molto complicata. Trafile per ottenere i visti di soggiorno all'estero, concerti cancellati per via della nazionalità. Anche lei ne sa qualcosa...
«La mia agenda è stata, ed è tuttora, molto fitta. Per varie ragioni, anche personali, la mia partecipazione a diversi eventi di questa stagione è stata annullata o rinviata, in compenso è stato confermato il Festival di Salisburgo, il concerto all'Arena di Verona, l'apertura della stagione scaligera. Il tempo dirà cosa succederà (ndr. lo dice senza stizza ma con realistico buon senso)».
Ha fondato un festival a Ufa e un'Accademia a San Pietroburgo. Tutto prosegue come prima oppure il conflitto ha rallentato le sue attività?
«Quest'anno il festival festeggia il suo primo nonché piccolo anniversario, cinque anni dalla fondazione. E mentre prima le stagioni erano concentrate a Ufa, da quest'anno sarà itinerante, dislocato in sette città fra Mosca e Vladivostok. L'organizzazione di un simile tour e il lavoro dell'intera Accademia richiedono attenzione e tempo. Per questo sono molto grato ai professionisti che mi aiutano a gestire questi progetti. È un impegno che comporta tanta fatica ma sostenere i giovani talenti è importante e quando vedi una nuova stella illuminarsi sul palcoscenico dell'opera ti rendi conto che valeva proprio la pena crederci e promuoverla».
Ha lavorato con i più grandi direttori d'orchestra. C'è qualcosa che accomuna le grandi bacchette?
«Mi vien da dire che l'unica cosa che accomuna i grandi direttori d'orchestra è la loro unicità, sono diversi l'uno dall'altro. Ognuno ha il proprio stile, uno specifico approccio al processo della prova, al lavoro con gli artisti e con l'orchestra. Ogni grande direttore sente la musica a modo suo e sulla base di ciò offre interpretazioni originali, e questo è meraviglioso».
L'abbiamo vista con Cecilia Bartoli cantare arie di Rossini a squarciagola: in pedalò sul lago. Cosa apprezza dell'italianità di questa artista?
«Cecilia ama quello che fa, sa come godersi la vita e contagiare di energia chi le sta intorno. Ma allo stesso tempo è una grandissima professionista, al momento giusto è pronta a immergersi completamente nel suo lavoro, e posso dire che lavorare con lei è incredibilmente interessante».
Forse state progettando qualcosa insieme?
«L'anno prossimo canterò nella sua prima stagione da direttrice dell'Opéra di Monte-Carlo. Sarò Don Basilio nel Barbiere di Siviglia di Rossini. E lei sarà Rosina».
Gira un video dove la si vede in figure e passi di danza classica con Rolando Villazón. Si diverte, insomma, coi colleghi.
«Rilassarsi e cambiare marcia è molto importante. In genere sono una persona piuttosto aperta e socievole, mi piace scherzare. Cerco di trovare il tempo per parlare con i miei colleghi anche di ciò che non c'entra nulla col canto. Quando si prepara uno spettacolo, si fanno decine di prove, poi c'è il debutto, quindi le repliche, si creano così le condizioni per stringere rapporti molto profondi e che spesso si trasformano in forti amicizie. Ho incontrato tanti artisti straordinari che posso ritenere amici. In questo senso, mi considero fortunato».
Crescere con un papà regista che valore aggiunto ha portato alla tua attività di cantante d'opera?
«Spesso assistevo alle sue riprese, vedevo come lavorava con gli artisti e come si congedavano alla fine di una giornata di prove: certamente queste memorie sono state molto importanti per me. Inoltre avevamo un pianoforte a casa, e dall'età di quattro anni nei fine settimana e durante le vacanze mio padre mi mostrava come suonare gli accordi, lui stesso prendeva il violino, suonava una melodia e io lo accompagnavo. Capì che avevo un buon orecchio musicale e che poteva essere sviluppato».
Quando decise di fare il cantante?
«Dopo aver ascoltato un'incisione di Attila con Samuel Ramey.
E si scoprì basso, tra l'altro nella Russia fucina di bassi...
«Ma non scherzate neppure voi Italiani. Bassi come Furlanetto o Raimondi sono molto amati in Russia, anche nel nostro repertorio, anzi abbiamo sempre apprezzato la perfetta dizione».
Ha cinque figli. Il maggiore continua lo studio della musica?
«È appassionato di musica, ma di un genere completamente diverso da quello che frequento io, scrive composizioni moderne. I miei figli più piccoli al momento preferiscono le attività tipiche della loro età, e comunque mi sembrano più attratti dalla danza».
Ha firmato diverse Prime della Scala, è ormai di casa a Milano. Per festeggiare una serata ben riuscita dove va a cena?
«In genere dopo gli spettacoli andiamo al ristorante Galleria».
Altri diversivi milanesi?
«Se il calendario delle prove lo consente, mi piace andare alle partite di calcio del Milan».
Testa e cuore già sul 7 dicembre?
«Sì, non vedo l'ora di iniziare le prove del Boris Godunov».
Lei deve tanto alla Scala...
«È il simbolo del melodramma italiano. Vi debuttai nel 2001, in Sonnambula. Poi sono tornato tante volte».
Quindi conosce i segreti della bottega scaligera...
«... a partire dai due punti strategici del palcoscenico: da lì, la voce corre ovunque».
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