Alla Scala torna il mistero del «dramma gioioso» che spaventò Toscanini

«Nell’andante i fremiti del terribile regno del pianto infernale s’impadronirono di me; presentimenti d’orrore riempirono l’anima mia. La brillante fanfara che incominciò sull’allegro risuonava in me come un giubilo sacrilego». Trent’anni dopo la creazione del Don Giovanni (Praga, 1787), lo scrittore E.T. A. Hoffmann, che era anche musicista e direttore d’orchestra con le carte in regola, così sottolineava la sublime ambiguità del «dramma giocoso» di Lorenzo Da Ponte (libretto) e Wolfgang Amadeus Mozart (musica). Un fascino che attacca subito nella sinfonia, dove all’introduzione demoniaca segue l’impetuoso allegro, allegoria del «dissoluto punito» e del suo irresistibile vitalismo. Un contrasto che stregò anche i Sommi: Schiller perseguitato dall’ombra di Don Giovanni e del suo autore, Byron perdutamente innamorato del «poeta» Mozart, e Goethe rassegnato a lamentare lo sventurato isolamento del capolavoro di un artista irripetibile.
«La lotta della natura umana con le potenze terribili e occulte che la circondano, spiando la sua perdita - proseguiva Hoffman - si presentò chiaramente agli occhi del mio spirito». Ai nostri, dopo più di due secoli di storia esecutiva, l’essenza del Don Giovanni appare un mistero inafferrabile. Non è solo una contesa goethiana di un’anima fra cielo e inferi, ma un sensazionale continuo teatrale di situazioni drammatiche e di mezzo-carattere che si susseguono con varietà insuperata. Altrettanto stupefacente è la delicatezza del rapporto fra gli opposti generi (tragico e comico), più croce che delizia per i responsabili dello spettacolo (regista e direttore). Se questi premono verso la corda drammatica, si dissolve la leggerezza giocosa; se, al contrario, si vogliono sottolineare gli aspetti buffi o galanti, l’assunto morale e metafisico si stinge. In tutti i casi il punto d’equilibrio sfugge. Forse per questo il Don Giovanni, anche alla Scala, ha avuto una storia particolare e le sue esecuzioni, nel corso dell’Ottocento, dopo la prima rappresentata alle soglie della trionfale ascesa di Rossini (1814), si contano sulla punta di una mano.
Bisognerà attendere il 1929 con l’Ente Autonomo voluto da Toscanini per veder ricomparire il capolavoro mozartiano. Sul podio però Toscanini non salì: lo spettacolo fu affidato alla responsabilità di Antonio Guarnieri. Protagonista il leggendario baritono Mariano Stabile, Toscanini arrivò fino alla prova generale, ma rinunciò a dirigere l’opera, dichiarando di non esserne capace. Episodio emblematico non solo dell’unicità imprendibile dell’opera ma dell’umiltà di Toscanini verso la musica. Per superare il silenzio delle istituzioni musicali italiane nei confronti di Mozart (con la solita eccezione, durante gli anni Trenta del secolo scorso, del Maggio Musicale Fiorentino) provvide alla Scala il concittadino salisburghese Herbert von Karajan (dal 1951) con un trio femminile ancora inciso nell’albo d’oro (De Los Angeles, Schwarzkopf, Noni), cui fecero seguito riprese e nuovi allestimenti con intervalli regolari sino al 1966. Si attesero vent’anni (1987) per togliere alla supremazia delle opere dei grandi autori italiani l’apertura di Sant’Ambrogio, conferendola al genio di Mozart. Toccò al duo Riccardo Muti e Giorgio Strehler che, appunto con il Don Giovanni, ripreso frequentemente ben tre volte, lasciare il loro segno. In quell’occasione emerse e fu risolto il fondamentale problema esecutivo dei recitativi.

Si era dimenticato, come ancora oggi si dimentica, che la lingua originale dell’opera è il meraviglioso italiano di Lorenzo Da Ponte, coniugato in forma indissolubile alla musica di Mozart. Qualcuno più autorevole di noi - Gioachino Rossini - definì il Don Giovanni una Sacra Scrittura e volle inginocchiarsi davanti all’autografo della partitura. Sarebbe imbarazzante aggiungere altro.

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