«Dialoghi sulla sofferenza» è una mostra ospitata nell'Orto dell'abbondanza di Urbino che affianca tre fotografi i quali affrontano in modi diversi il tema del dolore, come condizione individuale in diversi contesti sociali. Dalla vita negli ospedali psichiatrici alla disperazione solitaria, alla discriminazione. La sofferenza è una forma della solitudine. Il tempo ci corre addosso, ci trasforma, attraversa anche le nostre menti e cambia le nostre idee e la nostra percezione delle cose.
Giordano Morganti, a me vicino negli anni, ha battuto gli ultimi manicomi nella stagione di trapasso dopo la legge Basaglia. Ha incontrato i matti, li ha fotografati, ne ha condiviso il dolore. E poi è tornato in quelle stanze vuote, manicomi abbandonati, gli ospedali psichiatrici, una brutta definizione che ci parla di incurabili, eppure sottoposti a cure ma in realtà a violenze, a segregazioni. Sono passati gli anni, i decenni, non si parla più di manicomi, eppure la follia è cresciuta: disturbi, turbamenti, dolore, si scaricano nella vita e nell'esperienza quotidiana. I sofferenti non si ricoverano più in ospedale, non avrebbe senso. Siamo sofferenti tutti. E così oggi Morganti non documenta più le cronache e il dolore, ma la storia.
In dialogo con lui, due giovani donne ci raccontano, con la fotografia, le loro inquietudini, affidando all'obiettivo l'indagine non di ciò che è fuori, ma di ciò che è dentro la loro anima, la loro sensibilità, la loro coscienza. Un occhio interiore.
Ecco Ilaria Facci che sembra voler cogliere nelle torsioni dei corpi il momento in cui ne esce l'anima, che sfugge e che insieme dà vento e senso alle immagini. E Ilaria sembra dire: la donna è prima anima che corpo, e io ne colgo i sussulti, in una sequenza che strappa ai volti il primato per attribuirlo ai corpi. Ilaria vede il mondo con occhi diversi, malati, attraverso il retinoblastoma, e ci parla di un mondo altrimenti sconosciuto. Ma non è indifesa. È coraggiosa; ci affronta a corpo nudo, sottoposto a tensioni, torsioni, contorsioni, in una lontana memoria di Lucian Freud, e in una, più vicina, di Jenny Saville. Quei corpi si decompongono, o sono schiacciati; e resistono. Questi, di Ilaria, si sublimano, si trasfigurano, si fanno anime, come la Pietà Rondanini, sublime ultimo pensiero di Michelangelo; o foglie, come in Apollo e Dafne di Bernini. Ilaria ci parla della sua anima, del suo dolore, dei suoi desideri. Le sue atmosfere stanno fra il manierismo e il simbolismo, fra Rosso Fiorentino El Greco e Füssli; e Von Stuck. Sono corpi o fantasmi? Corpi piegati, corpi riflessi, corpi deformati, corpi sfuggenti, avvitati, sfocati. Ilaria è un'artista colta, piena di echi e reminiscenze. Deve essere stata incantata dalla Ophelia di John Everett Millais, corpo che galleggia in acque stagnanti, entro una lussureggiante vegetazione, ai bordi del fiume Hogsmill, a Ewell, nel Surrey.
Certo Ilaria sarà compiaciuta di sapere che, per la sua Ophelia, Millais scelse a modella Elizabeth Siddal, futura moglie di Dante Gabriel Rossetti e, per rendere più verosimile l'annegamento della fanciulla, la fece immergere in una vasca da bagno riscaldata con candele, nel suo tetro appartamento, al numero 7 di Gower Street, a Londra. La contratta resistenza della donna fu notevole, anche quando il provvisorio riscaldamento cessò di funzionare. E qui esce Ilaria: Elizabeth tenacemente continuò a posare, prendendo una terribile bronchite che ne compromise definitivamente la salute. Vita, malattia, morte.
Da un altro mondo viene Nidaa Badwan che, per essere libera, si è autoricoverata. A manicomi chiusi, ha scelto di imprigionarsi in una stanza per quasi due anni. Si era ribellata al velo che celava il suo volto, ha scelto di rifugiarsi in solitudine per essere libera e non dover subire la prigione e la condanna dello sguardo degli altri, maschi islamici.
Nella vita quotidiana i pregiudizi, la mortificazione della donna impongono un rapporto subalterno. Per essere liberi occorre nascondersi, chiudersi in casa, e da lì raccontare il proprio corpo, la propria identità femminile. Morganti, Facci, Badwan, tre condizioni della sofferenza. La fotografia contro la realtà.
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