Ma a scegliere il presidente sarà la California

Per eleggere il nuovo presidente gli americani saranno chiamati alle urne esattamente fra dodici mesi. I voti cominceranno a contarli fra due mesi, e fra tre, se tutto andrà secondo le previsioni, sapremo già quasi tutto: almeno chi saranno i candidati alla Casa Bianca. Se dipenderà dai californiani, infine, il successore di George W. Bush sarà praticamente scelto fra 7 mesi.
È una ridda, lo so; ma è anche decifrabile. L’unica scadenza normale è quella del 3 novembre 2008. Fra luglio e agosto, di regola, i due maggiori partiti scelgono i rispettivi portabandiera, al termine di un percorso di «primarie» che si apre in febbraio e si chiude in giugno. Quest’anno cambiano molte cose, ma soprattutto due. La prima è la corsa all’anticipo, non fra i candidati ma fra gli Stati. L’andamento regolare prevede che alcune comunità-campione, di popolazione relativamente ridotta, siano il test che i candidati affrontano per misurarsi e farsi conoscere: l’Iowa, il New Hampshire e via dicendo; in fondo alla fila i mega-Stati come New York e la California. Questa volta gli ultimi vogliono essere i primi a tutti i costi, soprattutto perché, California in testa, sono quelli che pagano i costi di gran parte delle campagne elettorali, e dunque intendono «realizzare» subito. Hanno perciò deciso di spostare le proprie primarie, cumulandole a fine inverno, di modo che al massimo ai primi di marzo i giochi dovrebbero essere fatti in entrambi i partiti.
A rimetterci sono i «piccoli», le comunità rurali o montane dell’Iowa e del New Hampshire, in cui le campagne elettorali hanno ancora un volto umano e gli aspiranti presidenti si fanno vivi in carne e ossa in piccole sale, ristoranti, shopping malls a discutere con la gente, in un invidiato quadro di democratica Arcadia. In California, dove gli abitanti sono 58 milioni, si fa tutto per televisione e in genere vince chi più spende. Vale a dire, chi più denaro ha saputo raccogliere partendo in anticipo non soltanto col fine di riempire le proprie casseforti, ma anche con quello di essiccare le fonti per chi scenda in campo più tardi. Strategia della «terra bruciata», che è giovata finora soprattutto a Hillary Clinton. Grazie anche a un raccolto maggiore del solito, in contrasto con la relativa «magrezza» dei repubblicani, fra i quali è finora emerso soprattutto Rudy Giuliani.
Finirà probabilmente col decidere la California, e non solo perché ha più voti e più denari, ma anche perché i repubblicani si apprestano a giocarvi la loro carta segreta: un cambiamento della legge elettorale. Di regola i voti di uno Stato vanno tutti al vincitore. Un emendamento finora oscuro in California, se approvato, prevede invece l’adozione di una specie di proporzionale.

Il vincitore, quasi certamente democratico, dovrà spartire il bottino con l’avversario. Cambieranno mano almeno 20 «grandi elettori»: di solito quelli decisivi. L’innovazione dovrà essere approvata in un referendum il 2 giugno, quando le primarie saranno da tempo finite.

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