Dieci anni fa un barile di petrolio costava 10 dollari. Oggi ne costa più di 70 e ci sono previsioni, per la prima volta, che ipotizzano un prezzo target di 100 dollari. Anche grazie al prezzo basso del petrolio 10 anni fa si arrestò la crescita delle tariffe e si sgonfiò l'inflazione. Con essa scesero i tassi di interesse ed il costo enorme del debito pubblico. Si aprì la strada verso l'euro e l'Europa.
Oggi la situazione corre il rischio di essere esattamente l'opposto, soprattutto per uneconomia titubante come la nostra, gravata da un debito pubblico ingente.
È difficile capire le cause profonde di questo rialzo di prezzi. Una parte è certamente dovuta a movimenti speculativi, che forse possono sgonfiarsi. Ma una parte ha a che fare con tendenze più strutturali e profonde. Prima di tutto l'aumento della richiesta di energia da parte di quelle parti del mondo che stanno crescendo a ritmi molto alti: Cina e India su tutte. In secondo luogo la consistenza delle riserve petrolifere disponibili. Allo stato dei fatti la loro ricostituzione è più lenta e difficile della velocità con cui esse vengono consumate. In terzo luogo le incertezze dovute alle turbolenze internazionali, con la possibile apertura di una crisi iraniana. Fattori come si vede difficili da mettere sotto controllo tutti insieme.
Fatto sta che in tutti i grandi Paesi dipendenti in maniera consistente dal petrolio e dal gas si stanno prendendo misure di politica energetica tese a ridurre il grado di vulnerabilità da questi combustibili. Lo ha fatto l'Inghilterra con il nuovo documento di politica energetica; è un obbiettivo dell'Amministrazione americana; ma è anche nei programmi delle grandi economie asiatiche. Sembra, a chi ne conserva la memoria, di essere tornati, agli scenari ed al dibattito degli anni '70, all'indomani delle due grandi crisi petrolifere di quel decennio. E le leve disponibili sono sempre quelle; ma con 30 anni di esperienza in più.
Si può migliorare enormemente l'efficienza dei processi energetici, consumando meno energia per unità di Pil. Si può spingere l'utilizzo delle fonti rinnovabili (acqua, sole, vento) con prospettive sempre più interessanti nella filiera delle biomasse e del biodiesel, che assegna un ruolo nuovo ai combustibili di produzione agricola. E non si può certo nascondere che in tutti i Paesi citati, ad Est e ad Ovest, il nucleare è tornato ad essere un'opzione concreta ed inserita nei programmi di governo. Compresa la Russia, seppur tragicamente colpita da Cernobil e con a disposizione enormi risorse di gas e petrolio. Il nucleare inoltre appare sospinto anche da motivazioni ambientali, visto che i rischi provocati dall'effetto serra appaiono accertati e condivisi. Ed è questa la ragione per la quale arrivano sempre più frequentemente da esponenti ambientalisti prese di posizione favorevoli a questa tecnologia.
Per il nostro Paese, il più vulnerabile fra tutti per l'alta dipendenza da petrolio e gas, ci vuole qualche cosa di più. Innanzitutto un ricorso più esteso al carbone, meno caro e acquistabile su mercati molto diversi. Poi una maggiore capacità di rifornimento di gas attraverso la costruzione di alcuni terminali di rigassificazione. Poi lo sblocco di molti progetti, anche di nuove fonti rinnovabili, osteggiati dai vari localismi. Per quanto riguarda l'energia nucleare è senz'altro desiderabile la ricostruzione di competenze nazionali, cosa che sta in parte avvenendo grazie ai progetti di Enel e di Sogin all'estero.
Infine ci vuole unità di intenti fra le diverse parti politiche. Un miracolo non impossibile, visto che la scorsa legislatura si è chiusa con l'approvazione, praticamente all'unanimità, di un documento di politica energetica chiaro e completo. Basterebbe ricominciare da lì.
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