Roma Rammarico, preoccupazione. Eppure, visto dal Colle più alto, il nuovo atto del duello con il premier non si può definire certo un fulmine a ciel sereno. Il barometro da mesi è stabile sul «perturbato», e il «fronte freddo» tra Piazza del Quirinale (dove c’è anche la sede della Consulta) e Palazzo Chigi tende ormai al gelo stratificato.
Ma in qualche modo il discorso pronunciato dal presidente del Consiglio al congresso del Ppe è giunto ugualmente inatteso, poco dopo che il capo dello Stato aveva terminato l’incontro con il presidente vietnamita Nguyen Minh Triet (il primo nella storia, anche se il capo di una delle repubbliche del socialismo in salsa capitalista ha tenuto a ricordare antichi legami e ha precisato - suscitando qualche imbarazzo - quanto Giorgio Napolitano sia «amico di lunga data: conosciamo il suo nome e la sua attività da quarant’anni»).
Sono così bastate poche ore, dopo le parole di Berlusconi e il primo scudo fornito dal presidente della Camera, per capire che non ci sarebbe stata alcuna «precisazione». Nessuna telefonata, nessun «chiarimento» invocato da Fini. Gelo come prima, più di prima. La parola «dialogo» ormai costantemente sostituita da un più vigoroso «confronto». E ciò che «ha fatto davvero impressione», sconcertando l’entourage presidenziale, è stato il «ritorno al punto di partenza». All’indigeribile rospo del «lodo Alfano».
Da questo stato d’animo, in questo clima un po’ da trincea, è nata la risposta di Napolitano. Un comunicato duro e deciso nel rivendicare la tutela delle due istituzioni - Quirinale e Consulta - che «dovrebbero essere mantenute al di sopra delle parti». Le parole pronunciate da Berlusconi «in un’importante sede politica internazionale» vengono definite dalla nota di Napolitano un «violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla Costituzione italiana». Di fronte al quale, appunto, «il presidente della Repubblica esprime profondo rammarico e preoccupazione». La nota sottolinea che «il capo dello Stato continua a ritenere che, specie per poter affrontare delicati problemi di carattere istituzionale, l’Italia abbia bisogno di quello spirito di leale collaborazione e di quell’impegno di condivisione che pochi giorni fa il Senato ha concordemente auspicato».
Ma ecco invece il ritorno a bomba, si sottolinea sul Colle. A quei colpi - per nulla «a salve» - che fin dalla scorsa primavera sono risuonati tra i due Palazzi. Quando Napolitano ha dovuto precisare di «non aver mai esercitato interventi impropri» nell’attività governativa. Il suo «stare dalla parte della Costituzione». Fino all’ultimo appello, il 27 novembre scorso, a «svelenire il clima». Un monito nel quale il capo dello Stato aveva proposto di fermare «la spirale di una crescente drammatizzazione delle polemiche e delle tensioni, non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali». Il presidente aveva voluto anche ribadire, in sintonia con la tesi cara a Palazzo Chigi, che «nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare». Neppure i magistrati erano scampati alla reprimenda e Napolitano li aveva invitati a «uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche», in maniera che «quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione».
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