Una sceneggiata patetica fuori dalla Storia

A chi, come me, li ricorda circonfusi dal tifo, dall'affetto, dall'ammirazione e dalla complicità quanto meno morale della «società civile» e della grande stampa, i brigatisti che nell'aula del Tribunale salutavano col pugno chiuso intonando l'Internazionale, hanno fatto compassione. A inneggiare con loro c'erano quattro gatti, parenti, pochi amici. La schiuma di una risacca che venendo da molto lontano si esaurisce stancamente sulla battigia della democrazia.
E del buon senso. Nel ’71 il fior fiore degli intellettuali fece a gomitate per firmare un manifesto di solidarietà agli esponenti della lotta armata. Proclamando: «Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro». Oggi nemmeno i fogli più estremisti azzardano una difesa dei quattordici brigatisti condannati chi per associazione sovversiva e chi per banda armata. L'unica, dovuta, di rigore e in bello stile brigatista, viene dagli avvocati Pelazzi e Giannangeli secondo i quali la sentenza «azzera gli spazi di democrazia». Che, immaginiamo, sarebbero quelli dove è lecito armarsi e accoppare un po’ di gente nel nome della lotta all'imperialismo. O della «realtà antagonista».
Reperti archeologici, ecco cosa sono i quattordici brigatisti. La loro stoltezza non li rende nemmeno interessanti, essendogli mancato quel dono indispensabile ai rivoluzionari autentici o da burletta che siano: la scelta del tempo. In certe faccende, i sequel lasciano il tempo che trovano. Salutare col pugno chiuso che senso, che valore simbolico ha? Non saluta più col pugno chiuso nemmeno Fidel Castro. Forse lo fa Kim Jong Il, ma non è un gran bell'esempio da imitare. E quello slogan, «guerra di classe per il comunismo», scandito insieme ai quattro gatti presenti in aula? Merce scaduta e scaduta da un pezzo. Non velenifera. Solo diarroica. Il rivolto drammatico di quella sceneggiata macchiettistica è che è stata sì inscenata da quattordici fessi, ma fessi pericolosi. Che giocavano al Che Guevara, la mitraglietta in mano. Che preparavano attentati ovviamente mettendo in conto qualche cadavere. Il prezzo, da saldi di fine stagione, da pagare alla causa. Il risvolto insopportabile è invece che siamo qui, ancora alle prese con dei dementi che a vent'anni dal fragoroso fallimento dell'utopia comunista vagheggiano uno Stato bolscevico e proletario. Del quale essere, in un delirio di superomismo e di arroganza, gli irriducibili ostetrici armati.


Troppi cattivi maestri hanno tenuto, in questi anni, le loro lezioni; troppo s'è lasciato che chiamassero gli anni di piombo «formidabili», che ammantassero i loro crimini nelle sontuose palandre dell'idealismo che tutto dovrebbe giustificare. Sistemati i quattordici brigatisti a scoppio ritardato, sarebbe opportuno tener d'occhio i loro mentori perché se li si lascia fare troveranno sempre dei fessi pronti a ricominciare la guerra perduta.

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