«Sui nostri dolori scende sempre la sera. Forse è facile scriverlo, e più difficile è attendere soffrendo che venga la sera e ci porti via il sonno. Ma essere uomo vuol dire sperare. Ma pochi sanno sperare. Coloro che nelle peggiori situazioni si alzano col sorriso sulle labbra e con lo stesso sorriso si coricano, non sperano ma abusano della benevolenza del destino, prendono a gabbo il loro dolore e quello delle persone che sono loro affidate, squalificano il loro stesso soffrire. Evidentemente non soffrono troppo se hanno il tempo e la voglia di giuocare ad essere tanto forti». Questi pensieri non appartengono al pensiero di filosofi stoici come Seneca o Marco Aurelio né alletica di Aristotele o alle meditazioni di SantAgostino e San Paolo, ma furono scritte da un insospettabile come Giorgio Scerbanenco.
Il futuro padre del noir italiano li scrisse per unopera singolare intitolata Il mestiere di uomo che venne pubblicata originariamente in quarantasette puntate sul periodico Il Grigione Italiano e che ora viene ristampata in una preziosa edizione da Nino Aragno Editore (pagg. 154, euro 15). Di questa raccolta di pensieri, di riflessioni «di vera moralità», si erano perse le tracce da tempo. Ed è stato lo studioso svizzero Andrea Paganini (autore anche dellaccurata introduzione al volume) a riportare alla luce un testo davvero singolare. Il ritrovamento è avvenuto assieme a quello di un enorme fondo di lettere e carteggi di proprietà di don Felice Menghini, intellettuale e sacerdote che de Il Grigione Italiano fu per anni direttore e promotore. Fra i materiali ritrovati nel fondo di Menghini ci sono lettere e testi di Scerbanenco ma anche di Piero Chiara, Indro Montanelli, Giancarlo Vigorelli e Aldo Borlenghi, autori che negli anni 40 furono tutti costretti a rifugiarsi in Svizzera per sfuggire al regime fascista.
Quando nellestate del 1944 Scerbanenco decide di dare avvio al suo Mestiere di uomo si trova per la precisione a Magliaso, in Canton Ticino, recluso in uno dei tanti campi profughi che la Svizzera aveva allestito durante la Seconda guerra mondiale per accogliere gli esuli dallItalia. Sappiamo che Scerbanenco cercò rifugio in Svizzera pochi giorni dopo l8 settembre 1943 come ha raccontato nellautobiografia Viaggio in una vita che pubblicò a puntate su Novella nellestate del 1958. Come ci spiega Paganini, Scerbanenco varcò clandestinamente il confine italo-svizzero il 20 settembre 1943 spostandosi a piedi, sul fianco del Monte Zeda, costeggiando il Lago Maggiore, passando da Premeno e Spoccia e quindi si presentò il giorno dopo davanti alle autorità di Palagnedra, in Ticino, cercando asilo per motivi politici.
«Il 23 settembre - racconta Paganini - con alcuni rifugiati italiani e di altre nazionalità viene trasferito al Campo di Smistamento di Büsserach nel Canton Soletta (Svizzera tedesca). Il 28, compilando il questionario per i profughi, afferma di essere perseguitato a causa delle idee politiche manifestate nella sua attività giornalistica. È senza passaporto, dichiara di non avere denaro (in Italia guadagnava 6-8mila lire al mese) e di non potersi adattare a esercitare dei lavori fisici a causa della sua debole costituzione fisica (ma è ritenuto comunque abile al lavoro)». Circa un anno dopo, Scerbanenco conoscerà don Menghini e gli proporrà per la rivista da lui diretta «una specie di massima chamfortiana (o scerbanenchiana) allungata e commentata, e soprattutto di ispirazione moderna, nel senso che toccherà cose che sono vive nel cuore dognuno».
Lidea di Scerbanenco è produrre una sorta di rubrica settimanale: «Mi aiuterebbe a sentirmi utile - scrive a don Menghini - a darmi il senso che opero qualche cosa pur in questa desolante inattività a cui sono costretto, e che è la fonte del mio dolore più profondo». In quel periodo la Svizzera permetteva solo in via eccezionale ai rifugiati di lavorare e soprattutto si preoccupava che non svolgessero alcun tipo di attività politica. Il 10 dicembre del 1943 Scerbanenco aveva già chiesto alle autorità della Confederazione lautorizzazione a pubblicare in traduzione tedesca presso leditore Albert Müller di Zurigo il suo nuovo romanzo Non rimanere soli (edito nel 2003 da Garzanti), nato proprio nei giorni della forzata permanenza allestero, come Il mestiere di uomo.
In una lettera del 7 marzo 1944 allesule Paolo Arcari, rettore del «Campo universitario italiano» per i rifugiati, Scerbanenco dichiara di aver ripreso a scrivere praticamente subito dopo il suo espatrio (sappiamo anche che passò il confine con un manoscritto nella borsa) e a proposito delle opere prodotte in quei giorni afferma: «Si tratta dei miei migliori lavori che io scrivo libero dalle imposizioni ideologiche che ho sofferto in Italia che hanno falsato o tolto vigore a tutti i miei lavori antecedenti. Vorrei naturalmente continuare, sarebbe il mio unico modo di resistere». E proprio da questa sua esigenza di resistere attraverso la scrittura nasce Il mestiere di uomo, dove Scerbanenco disquisisce sulla solitudine, la morte, la speranza, «il non diritto alla felicità», i ricordi, «il limite della resistenza», «il potere della parola», la dignità, le difficoltà della vita, la semplicità, la gioia, la pazienza, i desideri, la verità, etc.
Volontariamente il nostro autore si rifà per lo stile e il contenuto morale alle raccolte di pensieri di Nicolas de Chamfort e prende il titolo della sua opera da unespressione di Benedetto Croce che indica «quel complesso di qualità che tutte insieme formano il vero uomo che sa il suo mestiere, morale, di uomo. Se la vita di ciascuno fosse riempita di quella precisione, di quella naturalezza, di quella pulizia, che distinguono lopera di uno che sa il suo mestiere da uno che non lo sa, si raggiungerebbe la perfezione del vivere». Tutta la genesi del Mestiere di uomo venne seguita passo a passo da don Menghini che stimolò non poco Scerbanenco nella sua attività.
Sul lavoro interiore compiuto su se stesso per scrivere una serie di massime morali di quel tipo, Scerbanenco specificava in una lettera al sacerdote: «Le posso assicurare che io sento quello che scrivo in Mestiere di uomo (e come potrei scrivere certe cose se non le sentissi? Vi è un limite al mestiere di scrivere, glielo assicuro), ma sento anche quello che scrivo nei racconti neri. In psicanalisi si chiama ambivalenza, che sarebbe poi anche polivalenza, e cioè una frantumazione della personalità (quasi schizofrenia). Io sono incapace di mettermi da un punto di vista unico, la mia imparzialità è assoluta o quasi. Mi sembra di comprendere la vittima ma anche il suo carnefice.
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