da Roma
È passato appena un giorno dalla celebrazione del primo compleanno di governo, e la tensione crescente tra Romano Prodi e la sua maggioranza si sposta ai più alti livelli istituzionali. Tanto da costringere il capo dello Stato a intervenire per calmare le acque e cercare di circoscrivere l’incidente.
Al presidente della Camera Fausto Bertinotti non è andata giù per nulla la critica al Parlamento che ha letto nelle parole del premier, pronunciate durante la conferenza stampa di bilancio del primo anno a Palazzo Chigi. Troppe poche le leggi approvate, rispetto ai provvedimenti varati dal governo, e questo anche a causa di un’interpretazione «eccessivamente estensiva» dei regolamenti parlamentari. Di buon mattino, convocati i cronisti a Montecitorio, Bertinotti ha scandito una dura risposta a Prodi: «Forse il presidente del Consiglio è fuorviato dalla scarsa dimestichezza con le aule parlamentari», ha detto. «Sarebbe bene che riflettesse su due punti: che il dibattito parlamentare è il sale della democrazia e non può essere strangolato da interpretazioni restrittive dei regolamenti parlamentari; e che valga la lezione che bisogna abbandonare la scorciatoia dei decreti legge e intraprendere l’autostrada dei disegni di legge».
Pronta parte da Palazzo Chigi una replica assai piccata: Prodi rivendica la sua «lunga dimestichezza con le aule parlamentari», e sfida Bertinotti a «negare che si siano venute a creare situazioni che spesso non vengono comprese dai cittadini». Se il governo non è granché popolare, insomma, il Parlamento non se la passa certo meglio, insinua il premier. Quanto all’eccesso di decreti legge, «non è certo una prassi introdotta dal mio governo, che ha cercato di evitare il più possibile questa “scorciatoia”». E comunque con i decreti «si son presi importanti provvedimenti a favore dei cittadini». La tensione tra Montecitorio e Palazzo Chigi arriva alle stelle, il Quirinale fa trapelare il proprio allarme, i pompieri scendono di corsa in campo.
È toccato al ministro ds Vannino Chiti cercare di ridimensionare lo scontro istituzionale, accusando l’opposizione e i media di «inventare un’inesistente contrapposizione» tra Prodi e Bertinotti. «Nessuna critica» del governo al Parlamento, e che la via maestra non siano i decreti legge «è la convinzione del governo». Il medesimo Chiti si è fatto carico di difendere il premier da un altro attacco, questa volta di parte sindacale: «Un giudizio sbagliato e ingiusto» quello del capo della Cisl Bonanni, secondo il quale Prodi è «un Andreotti in sedicesimo». Alla fine Prodi faceva sapere di aver avuto un «colloquio chiarificatore» e «cordiale» con Bertinotti: «Si è trattato solo di normale dialettica», assicura.
Nel frattempo, però, dentro governo e maggioranza esplodevano mine ovunque. Il vicepremier Francesco Rutelli dava in sostanza ragione a Bertinotti: sull’operato del governo si è determinata «una scarsa chiarezza nell’opinione pubblica», e questo perché «non ha funzionato l’aver fatto troppi provvedimenti». Il socialista Villetti avvertiva: «Con una maggioranza così risicata bisognerebbe evitare di crearsi da soli difficoltà». Clemente Mastella attaccava a testa bassa e ventilava sospetti inquietanti per il premier: Massimo D’Alema lo avverte che se tira la corda «ritorna a Ceppaloni»? «Non mi aspettavo questa ferocia politica da lui, primo comunista che noi abbiamo garantito a Palazzo Chigi. Ma se io torno a Ceppaloni, Prodi torna a Bologna. E allora magari D’Alema e Berlusconi fanno un governo di larghe intese...». Persino un prodiano di ferro come Arturo Parisi tirava le orecchie al premier: nel suo bilancio di fine anno «mancava ogni riferimento alla missione in Irak. D’altra parte che in Italia ci sia una carenza di cultura della difesa è palese». A sera Prodi cercava di minimizzare: «Siamo una coalizione ampia e pluralista, volete che non ci siano marette? Ci sono e ci saranno...».
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