Per poter riflettere non cè cosa migliore che starsene seduti dietro una scrivania. Se vogliamo far partorire dal nostro pensiero qualche idea, dobbiamo starcene in quiete. E prenderci tutto il tempo possibile. È nella tranquillità che il nostro pensiero riesce a dare il meglio di sé. Almeno così ci è stato da sempre raccomandato. Ma siamo sicuri che bisogna fermarsi, per poter pensare? No, non è detto che sia sempre questa la condizione più congeniale per riflettere. Anzi, forse è vero il contrario.
Insomma, si può anche pensare correndo. Perché quando corriamo il pensiero - diversamente da quando siamo inchiodati su una sedia - avverte la presenza del nostro corpo. E il corpo - come ci hanno confermato le più avanzate ricerche delle neuroscienze - svolge un ruolo decisivo nellelaborazione del pensiero. Nessuno ormai crede più, del resto, al dualismo cartesiano che aveva separato, in contrapposti ambiti incomunicabili, la res cogitans e la res extensa, il pensiero e il corpo.
Anzi, il corpo incide così perentoriamente sul nostro pensiero che potrebbe essere curioso immaginare come sarebbe stata la Critica della ragion pura se Kant avesse pensato anche con la carne e il sangue. Ma per poter pensare anche con carne e sangue è necessario sentire il nostro corpo. E quando corriamo sentiamo il nostro corpo, in tutto il suo pulsante vigore. Come ci spiega Jacques Schlanger, professore di filosofia allUniversità ebraica di Gerusalemme. Che alla relazione tra pensiero e corsa ha dedicato La solitudine di un maratoneta del pensiero (il melangolo, pagg. 113, euro 15).
Ho trascorso tre anni della mia adolescenza - racconta Schlanger - in un austero collegio. Tra i ricordi che riaffiorano, cè quello della corsa podistica. Due o tre volte al mese, i ragazzi dovevano percorrere un tragitto che si snodava nel bosco intorno alla scuola. Non era necessario correre più velocemente o vincere. Bastava che ciascuno compisse il percorso nella sua interezza. In quei trenta minuti che durava la corsa, si aveva la possibilità di restare soli con se stessi. E di rimuginare i pensieri al ritmo delle falcate: «La corsa, la lotta con se stessi, la percezione del proprio corpo, i muscoli doloranti, il fiato spezzato, le gambe pesanti e dimprovviso - ricorda Schlanger - sentirsi come trasportati in uno stato di esaltazione, con la sensazione di poter continuare così fino alla fine dei giorni, in solitudine, felici».
Correre e pensare: il maratoneta del pensiero è colui che sa porsi in ascolto del proprio corpo. Colui che pensa, sfidando il proprio corpo con il proprio corpo. E poi, allimprovviso, avverte che il corpo ha trovato un equilibrio. Il respiro diventa regolare, il battito del cuore si propaga in tutte le cellule, i muscoli si tendono e si flettono come in un contrappunto musicale. E in questo momento i pensieri del corridore sono allunisono con il ritmo del corpo.
Questo è il vero scopo della corsa: percepire che i pensieri che affiorano ad ogni falcata sono una cosa sola con il nostro corpo. Se i filosofi fossero consapevoli di questa corposità del pensiero, forse tornerebbero finalmente a parlarci della nostra vita.
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