Politica

Schröder il vero sconfitto nel bazar di Bruxelles

È sempre difficile, dopo uno scontro diplomatico al calor bianco, individuare vincitori e vinti. Le ragioni di ognuno, spesso, vanno sottobraccio ai suoi torti. Così, se Jan Peter Balkenende, l'Harry Potter dell'Aia, può esser tacciato di «egoismo» per non aver detto di sì al compromesso per poco meno di un miliardo di euro l'anno di minori esborsi - briciole rispetto all'economia olandese - è anche vero che non poteva tornarsene a casa con le pive nel sacco, specie dopo un referendum in cui i suoi concittadini avevano respinto seccamente il suo invito a votare la Costituzione europea anche perché convinti di spendere troppo e riavere poco o nulla indietro.
Ragioni interne e internazionali, spesso s'intersecano. E quel che esce dal frullatore impazzito non è magari quanto si sarebbe voluto. Ma ormai è fatta. E comunque ci sarebbero da considerare maggiormente anche altri elementi che invece si scordano o non si tengono in debita considerazione. Come nel caso di quest'ultima battaglia di Bruxelles, al fondo della quale - come ha ricordato il ministro degli Esteri francese Douze-Blazy - c'era un interrogativo rimasto inevaso: «Chi paga per l'allargamento?». L'ingresso dei nuovi 10 Paesi dell'Est, che hanno messo piede nella Ue con il vecchio bilancio pluriennale solo parzialmente rivisto, aspettavano la definizione del budget 2007-2013 come una manna, perché per la prima volta sarebbero stati considerati membri a pieno titolo della spartizione. Ci si è occupati assai poco della questione, fino a scoprire che per dar loro il giusto, tutti gli altri ci avrebbero rimesso.
E così, ad esempio, finisce per esser occultato dal braccio di ferro anglo-francese, il ruolo di Schröder. Proprio il cancelliere, insistendo per la nomina del fedelissimo Gunther Verheugen a commissario per l'allargamento nel governo Prodi, era stato quello che più aveva insistito per l'apertura dei portoni ad Est in modo massiccio. Non due-tre Paesi a volta, ma dieci tutti in un botto. Pensavano a Berlino, come fecero favorendo anche economicamente l'indipendenza della Slovenia che poi comportò la crisi e le guerre balcaniche, che dall'Oder al Baltico e poi giù fino ai monti Tatra si sarebbero per loro aperte possibilità di influenza ed affari. Invece i dieci han preso a seguire la Gran Bretagna (vedi guerra in Irak) e poi, con la creazione di una sola tassa al 16% per persone e capitali, han messo in ginocchio l'economia tedesca che ancor oggi deve far fronte alle decisioni di tante industrie - nazionali o straniere - di trasferirsi a Tallin o a Bratislava per la maggior convenienza del costo del lavoro.
Così l'altro giorno, la «commozione» di Schröder nei confronti del «sacrificio» che erano disposti a fare i nuovi 10 - con meno introiti comunitari - pur di arrivare ad una intesa, era in effetti più un pianto da coccodrillo che il segno di autentica sorpresa.
Anche Chirac si è detto colpito dal bel gesto. Peccato allora abbia posto il veto ad una revisione della politica agricola che oggi come oggi premia soprattutto i francesi e poi, in buona misura, anche gli spagnoli. Ma che non favorisce affatto i polacchi - la cui maggior risorsa sono ancora le campagne - tra i quali non a caso, specialmente negli ambienti rurali, va crescendo l'euroinsofferenza.
Detto ancora di Berlusconi, abile nel tener fermo il punto dei sussidi al Mezzogiorno pur non apparendo insensibile alla necessità di rivedere le cose per via dell'ingresso dei nuovi 10, e determinato nel reclamare una nuova «modulazione» del bilancio, tenendo in conto la necessità di investimenti per l'innovazione, resta da giudicare il ruolo di Tony Blair.
In patria l'acclamano: non ha rinunciato ad un penny di quanto era scritto sui trattati fin dall'84. Ha rintuzzato gli attacchi e ha messo il dito sulla piaga di un bilancio tutto ripiegato sulla protezione della produzione di latte, grano, cavolfiori che lui preferirebbe lasciare all'Africa, in modo da permetterle di crescere, offrendo una prospettiva concreta rispetto alle parole ed ai concerti contro la miseria che fin qui sono l'unica risorsa - buona per i media, non per la fame - che s'intravede.
Resta il fatto che il premier britannico s'è inimicato molti, forse troppi dei suoi partner. E che fin da giovedì, quando si dovrà presentare all'Europarlamento per illustrare il suo programma semestrale, saranno in tanti ad attenderlo col fucile spianato. Come tanti generali inglesi ha vinto una battaglia importante. Ma Wellington, assieme a Nelson, vinse una guerra vera contro chi voleva forgiare uno Stato europeo. Lui non è che all'inizio e non è affatto detto che ottenga lo stesso risultato, convincendo tutti della bontà delle sue tesi.

Specie se Londra chiede modifiche agli altri ma non vuole accettarle per sé.

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