Cronache

Una scia di morte e vendetta arrossa di sangue tutta la Liguria

Tribunali improvvisati e giustizieri carichi d’odio contro «spie», «fascisti», «traditori» spesso vittime innocenti

Una scia di morte e vendetta arrossa di sangue tutta la Liguria

L’insurrezione decretata dal Comitato di liberazione nazionale (23 aprile), la resa del generale tedesco Meinhold (25) e l'arrivo delle truppe americane (27), come è noto, non avvennero in modo indolore. Ci furono a Genova oltre duecento morti nel campo degli insorti e dei partigiani, ma vittime si ebbero anche fra i civili sorpresi dalle sparatorie tra i due schieramenti. Parecchi anche i caduti tra tedeschi e fascisti dei reparti coinvolti negli ultimi scontri. Poi, a margine degli stessi, incominciarono i primi prelevamenti arbitrari di cittadini accusati di fascismo, i primi omicidi. Nonostante la presenza delle forze angloamericane (qualcuno dice con il loro tacito consenso), malgrado alcuni capi partigiani - come Bisagno - abbiano tentato di impedire le prevedibili vendette, maturate nel corso di una guerra civile particolarmente sanguinosa, la situazione, in molti quartieri e per molti giorni, si fece decisamente grave, perché la violenza dilagò incontrollata, alimentata dall'esaltazione ideologica e determinata dall'assoluta assenza di ogni ordine costituito.
Cadono in molti (oltre seicento) sotto i colpi degli insorti, in tutta la città, segnatamente in val Polcevera, nel ponente cittadino e, in misura minore, nella val Bisagno e nel centro, con un picco di ferocia che va registrato nelle giornate che vanno dal 27 aprile alla seconda decade di maggio. I morti furono poi sbrigativamente classificati in toto come «spie», «fascisti», «traditori», anche se molti di costoro furono sicuramente vittime di vendette personali, non politiche. Non è scopo di queste note ricordare tutti i fatti di sangue, ma solo alcuni, per offrire una vaga idea di ciò che si abbattè sulla città e la provincia intera, nei giorni seguenti la resa delle forze italo-tedesche.
A Pontedecimo vengono uccisi militari del 2° Gruppo Artiglieria della Rsi che tentavano di trovare una via verso il Passo dei Giovi: Tambussa, Colaianni e altri ignoti, mentre giovani o maturi militi della Brigata nera, dopo una lunga trafila di maltrattamenti, finiranno i loro giorni presso i Piani di Praglia, il giorno 4 maggio. Tra questi, il discusso tenente Giovanni Fontana, l'ausiliaria Eugenia Soffientini, i militi Gasparini, Lavagetto, Parodi e altri sedici tra uomini e donne.
Sempre nella zona di Pontedecimo si procedette alla fucilazione di due sorelle, Rosa e Anna Reverberi, nella notte sul 1° maggio. Una terza sorella fu eliminata negli stessi giorni a Lecco. Dovettero fare poca fatica coloro i quali uccisero Egidio Montanella, fratello dell'ex-segretario del fascio locale. Passava le giornate nella vana attesa del figlio disperso in Germania, e quando lo presero per fucilarlo - senza colpa alcuna - nella sua mente avrà pensato di andare incontro all'amato figlio Luigi. Era di Pontedecimo anche il dipendente comunale Davide Migliorini. Prelevato da partigiani presso gli uffici di corso Torino, non farà mai più ritorno a casa.
Campomorone fu bagnata dal sangue del compianto dott. Simonelli, segretario del fascio, e della consorte, Paolina Brenninger, che tanto si adoperarono per mitigare la furia della guerra civile nella zona. L'antifascista Mario Zino, nel suo «Piombo a Campomorone», libro del 1965, testimonia del personale intervento di Simonelli in favore dell'industriale Sanguineti, che fu salvato dalla rappresaglia fascista.
Il 19 maggio, a guerra ampiamente conclusa, un gruppo di armati preleva e uccide Don Colombo Fasce, parroco di Cesino. Ignoti i motivi di tale omicidio, essendo il prete conosciuto come uomo buono e prodigo di aiuti per chiunque avesse bisogno. Ma tutto lascia ritenere l'odio politico come la molla che ha fatto scattare le armi del gruppo. Don Fasce è annoverato fra i centotrenta sacerdoti italiani vittime dei comunisti durante la guerra civile.
A Bolzaneto, vero epicentro della vendetta antifascista, i fucilati si contano a decine. Capita che i corpi vengano ritrovati un po' ovunque: nel greto del Polcevera, a Geminiano, presso il cimitero della Biacca, a Murta, alle Bratte e in località Brasile. Nel deposito legnami della ditta Scorza sono in molti ad essere fucilati. Non solo ex-militari, ma cittadini qualunque, presi per sfogare antichi rancori, per servire da capro espiatorio in un processo di rimozione del passato di un'intera collettività. Si ricordano i Cambiaggio, padre e figlio, Germana Tagliapietra, l'ausiliaria Alda Bonetto, il milite portuale Virginio Bonanni e tanti, tantissimi altri.
Non tutti accettarono, però, di pagare il conto presentato dai nuovi padroni. Angela Cereseto, di 18 anni, scorge il fratello Pietro fra i reclusi nel deposito Scorza. Cerca di avvicinarlo. I partigiani la vedono, la arrestano, la spingono dentro il deposito. La situazione precipita. Lei urla, il fratello reagisce, si dibatte e strappa di mano un mitra a un partigiano riuscendo a ucciderlo, prima che gli altri carcerieri, avuta ragione della disperata rivolta dei due Cereseto, non provvedano a freddarli entrambi, il 27 aprile. Passeranno pochi giorni e anche il padre dei due indomiti ragazzi, l'oste Lorenzo Cereseto, sarà rapito e ucciso.
Ecco quindi la fucilazione sommaria di Leopoldo Romanelli, Vittorio Minciotti, Marino Vignali e altri cittadini, il 1° maggio 1945 presso il Castello Foltzer a Certosa. Per costoro, la scarica dei mitra dovette costituire veramente una «liberazione», perché ne venivano da ore e ore di urla, sputi, percosse, colpi di ogni genere, inferti da una folla impazzita, all'interno del Teatro «Ligure» trasformato in uno squallido «tribunale». Sempre nella delegazione di Rivarolo scomparvero il marittimo Angelo Fellegara, l'impiegato dell'Uite Giuliano Ferrando, il guardafili Vages Bersanetti, i ferrovieri Vittorio e Giovanni Porzio, padre e figlio, per citarne solo alcuni. Nella galleria di Certosa sarà ucciso da partigiani locali il vigile urbano Antonio Pugliese. Si ignorano i motivi di tale fatto, ma va detto che in molti casi, a prevalere furono odii che con la politica e col fascismo avevano poco da spartire. «Tragico errore» fu invece la giustificazione ufficiale per l'omicidio del farmacista rivarolese Luigi Testori, che aveva già perso un figlio in un bombardamento aereo.
Nei pressi dell'Ospedale Villa Scassi vengono soppressi, dopo una farsa di processo, una decina di individui accusati di fascismo. Poi, un reparto di militari britannici interverrà per bloccare tali eccessi. Ciò non eviterà, per contro, la sequenza degli omicidi. Si continuerà di notte. A Sampierdarena moriranno anche, vittime dell’odio di parte, personaggi molto noti nella delegazione, come il sarto Lusvardi o il questore Raffaele Ciminelli. Quest'ultimo si rese particolarmente inviso, avendo arrestato personalmente numerosi componenti della famigerata «banda del Lagaccio», responsabile di furti, omicidi e dell'attentato alla galleria di San Benigno.
Proprio nella zona del Lagaccio si consuma l'eccidio della famiglia Linguiti: madre, padre e figlia assassinati con particolare ferocia. E poi quello della famiglia Sanguineti: madre, una figlia e i due fratelli con le rispettive fidanzate. Nelle stesse strade, dagli stessi elementi, dopo una serie di inutili crudeltà, fu ucciso il mite prof. Giuseppe Eboli, insegnante di matematica presso l'Istituto «Tortelli». Curiosamente, la sorte non fu benevola con chi infierì sui deboli. Tra gli assassini del Lagaccio, infatti, troviamo i nomi di Mario Buzzo (che sarà eliminato da altri partigiani il 26 maggio 1945) e di Liborio Piazza, che uccise, in concorso con altri compagni, tre Carabinieri Reali in quel di Voltri. Sarà fucilato dall'Esercito inglese il 21 gennaio 1946.
In centro vengono ammazzati, senza tanti complimenti, lo studente Antonio Lamparelli, il sindacalista Domenico Amoroso, il marò Stefano Dordelli, sotto gli occhi della madre che lo chiamava dalla finestra. Molti morti rimarranno invece senza nome. Privati degli effetti personali, con ferite al volto che ne rendono impossibile l'identificazione, molti cadaveri vengono avviati in fretta verso i cimiteri cittadini, dove risulteranno per sempre «ignoti». In corso Carbonara è assassinata Michelina Trevisani, impiegata comunale, e il 5 maggio Domenico Teofili, capo del personale del Consorzio autonomo del porto. Altri morti all'Officina del gas, a Molassana, a Marassi, a Bavari e a Quinto. Nel quartiere di San Fruttuoso viene prelevato da casa il giovane milite Alfiero Piantini. La madre rilascerà a chi firma queste note una straziante testimonianza. Il pianto di colei che visse solo per cercare - inutilmente - di sapere almeno dove era stato occultato il corpo del figlio.
Sparisce per sempre il capitano - e marchese - Antonio Canevaro, un autentico galantuomo. Nella nativa Zoagli nessuno gli avrebbe torto un capello, tanto era conosciuta la sua rettitudine, la premura verso i deboli, la bontà nei confronti di chiunque. Dovettero trucidarlo a Genova, nella «rossa» Sestri. Scaraventandolo, si disse, nell'altoforno di uno stabilimento. Sempre qui, l'orrido eccidio della famiglia del colonnello Granara. Con la moglie Miranda Crovetto, furono uccisi gli innocenti Ippolito e Luigi Granara, rispettivamente di 11 e 14 anni. Al padre, recluso a Marassi per ragioni politiche, non resterà che spegnersi dal dolore. Astro Tagliazucchi rientrava a casa dopo una vita passata in guerra, ma fu fermato sotto la porta di casa. Portava in borsa un paracadute, dono di seta americana per la figlia. Ma, dopo una via crucis inenarrabile, sarà riconosciuto dalla vedova in un corpo giacente presso il cimitero dei Pini Storti il 29 maggio 1945. Di molti altri non rimarrà traccia, gettati in mare o in fosse sconosciute.
Anche a Pegli non mancano gli eccessi. Passata l'ora delle sparatorie con gli ultimi tedeschi, si vanno a prendere in casa i fascisti, che evidentemente non ritenevano di avere molto da temere, tanto da farsi rintracciare tranquillamente. Cadono i militi Orzalesi, Pellicano e il povero Iorio, padre di otto figli. Si era arruolato per lo stipendio, e fu rinvenuto in una fossa che conteneva altri quindici corpi. Sono uccisi il direttore della Morteo ing. Massobrio, il proprietario dello stabilimento balneare Puppo, la maestra Lombardi, tutti stimati cittadini.
A Voltri, per non essere da meno, si ammazza con larghezza. Presso la frazione Fabbriche il pensionato Salvatore Saia e il figlio Loreto, invalido. Poco distante, i fratelli Giovanni e Amelia Santacroce. Presso il Castello «Tassara» - sede di un reparto partigiano - vengono soppressi i fratelli Giovanni e Lorenzo Tacchino. Il 5 maggio è ucciso il dipendente comunale Mario Maggi, poi rinvenuto insieme a due ignoti, in località Chiappa. Altre decine gli ammazzati a Voltri e nelle località vicine. Alcuni corpi - irriconoscibili - sono restituiti dalle onde del mare. Certi indossano ancora la divisa dei «San Marco».
In provincia di Genova, sia pure con minore insistenza, non mancano gli emuli di piazzale Loreto. A Chiavari, otto persone finiscono contro il muro della Colonia «Gustavo Fara» nella notte del 27 aprile. A sparare, secondo alcuni, sono militari americani, di colore e ubriachi. Ma forse si tratta di una voce messa in giro per coprire i veri responsabili dell'eccidio. Alla fine, restano sul selciato un barbiere, un impiegato, il comandante dei vigili urbani Stefano Tronca e altri. In tutto sette, perchè uno, certo Ceino, si salverà.
Si fucila a Rapallo, a Lavagna, a Sestri Levante. Tra le tante, vogliamo citare l'atroce fine di Mario Mangiante, detto Lino, di Lavagna: «...trascinato per le strade al guinzaglio, con un gancio infilzato nella lingua e uno nei testicoli. È finito a raffiche di mitra che quasi lo segano in due...». Così si riporta testualmente da «Cosa importa se si muore» di Bertelloni e Canale, edito nel 1992. A Rovegno, in val Trebbia, si smobilita il campo di prigionia sito nella Colonia di Rovegno. Ormai che i prigionieri fascisti non servono più a niente, meglio fucilarli tutti. Degna di un martire cristiano la sorte riservata al Tenente colonnello G.B. Garibaldo. Catturato nei pressi del forte Diamante, sulle alture di Genova, fu trascinato fino a Rovegno. Gli tolsero gli stivali e fu obbligato a fare la salita fino alla Colonia con una trave sulla schiena, prima di finire in una fossa comune, insieme a decine di altri militari prigionieri.
Sangue dei vinti viene sparso in val Brevenna, dove scompaiono militari che si erano arresi, bersaglieri del 3° e marò del «Risoluti», e stesse scene a Ronco Scrivia, Isola del Cantone e Arquata. Qui, due marò bresciani in fuga riescono a sottrarsi alla morte certa, lasciando tra le mani di un maldestro insorto solamente... un impermeabile. Costui, per anni, ogni 25 aprile, riceverà da Brescia una cartolina, sempre la stessa: «Tienici da conto l'impermeabile, prima o poi passiamo a riprendercelo». A Mignanego viene fucilato, da falsi amici passati ai vincitori, il marò della «San Marco» Luciano Levrero.
I plotoni d'esecuzione partigiani agiscono anche a ponente, sulle alture di Arenzano, di Cogoleto, nelle vallate che si inoltrano verso il Piemonte. Cadono i resti della Divisione «S. Marco», i militari di passaggio che tentano di tornare a casa, i civili che, per qualche oscuro motivo, non sono nelle grazie del movimento partigiano. Ma tanti sono anche i genovesi che perdono la vita fuori dei confini della provincia.
La moglie e la figlia del capitano Sciaccaluga, travolte dagli avvenimenti a Milano, saranno uccise con il classico colpo alla nuca e buttate nel Naviglio. Una foto agghiacciante le mostra impietosamente distese sul tavolo di marmo dell'obitorio milanese.
Mentre tentavano di fare rientro a Genova, vengono fucilati il bersagliere Angelo Cosentino e il marò Mario Bacigalupo, sorpresi nel savonese in rivolta. Scompaiono per sempre, massacrati dagli slavi al confine orientale vari genovesi, come i marò Ricotta, Paolin e Creanza. Nella strage di Graglia (No) viene soppresso il tenente camogliese Benedetto Canepa. Altri concittadini caddero ad Alessandria, Torino, in Veneto, nelle zone lombarde. A Lovere (Bg), il 17 di maggio, sono falciati dai mitra sei operai dell'Ansaldo che si trovavano in trasferta, vittime di rancori maturati nell'ambiente di lavoro. Gli assassini troveranno rifugio nella ospitale Praga.
Il dentista genovese Ilario Malatrasi viene trucidato da ex-partigiani a Spilamberto (Mo), in pieno «triangolo della morte». Era sempre il mese di maggio, ma l'anno era il 1946! Per questo omicidio, sei individui saranno condannati a svariati anni di carcere.
La vendetta verso gli sconfitti durerà ancora per molto tempo e in forme diverse. Ci saranno percosse, ferimenti, violenze a cose e persone. Ma pure la galera, l'epurazione, l'esilio, l'esclusione e - a tutt' oggi - il silenzio pressoché totale delle istituzioni.


Tuttavia, la memoria di quei giorni, di quei fatti, di quei caduti, è sopravvissuta a dispetto del tempo trascorso e costituisce il passaggio obbligato per una serena rilettura, finalmente non più condizionata da forzature ideologiche, di una pagina tanto importante della storia nazionale.

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