Le scimmie astronaute sacrificate dalla Nasa

Non ci saranno gli alberi, le liane, la frutta. Non ci sarà nulla, se non le luci fredde della cabina, le tavolette alimentari temporizzate e il buio esterno degli spazi siderali falciati, ogni tanto, dalla luminescenza di qualche corpo celeste incontrato sul cammino. E torneranno indietro quasi sicuramente morte, se lo spazio avrà il buon cuore di restituirle almeno al pianeta dove sono nate.
La Nasa torna ad arruolare scimmie e un brivido corre lungo la schiena di chi ha seguito il reclutamento dei primati, ai tempi dei primi programmi spaziali, quando America e Russia si contendevano il dominio del cielo in attesa di piantare la bandiera sulla Luna. Quanti scimpanzé sono stati immolati dagli americani e dai sovietici, negli anni ’50 e ’60 per studiare l’effetto dell’accelerazione durante il lancio e i danni prodotti dalla differenza di gravità nell’orbitare a lungo intorno alla terra. Tanti, troppi e soprattutto sacrificati inutilmente, perché, come hanno dimostrato le vicende dei due cosmonauti allunati e di chi li attendeva in orbita sulla navicella di ritorno, più che i danni fisici, limitati a disturbi transitori dell’equilibrio, il vero dramma che li attendeva nel ritorno alla vita terrestre era la depressione, l’alcolismo, la durissima lotta per riappropriarsi della condizione «umana», come ci ha raccontato «Buzz» Aldrin.
Chi è nato sulla terra e ne ha calcato il suolo per anni, contemplando lo scenario struggente di un cielo stellato con la luna piena che ti offre il suo volto, non può far finta di niente, quando da quello stesso volto ha potuto contemplare, in un brivido iperpiressico senza fine, l’azzurro degli oceani che disegnano il colore del volto di sua madre. Non lo può fare, senza pagarne uno scotto psicologico. Ed è per questo che, ancora una volta, le povere scimmiette ingaggiate dalla Nasa per i primi viaggi su Marte non ci diranno nulla. Torneranno (se torneranno), poveri cadaveri innocenti, o esseri moribondi, irradiati ancora prima di partire, che cercavano nella cabina una banana, trovando al suo posto una serie di pulsanti da premere in rigida sequenza. Ieri erano gli scimpanzé, l’altro ieri la cagnetta Laika (per fortuna morta entro breve tempo per il surriscaldamento dell’abitacolo), oggi sono di turno le scimmie scoiattolo, trenta centimetri di altezza e una cinquantina di lunghezza della coda, scelte perché, povere sfigate, avrebbero la massa cerebrale più vicina a quella umana in rapporto al peso del corpo. Quanto queste caratteristiche possano essere calzanti, nel prendere in considerazione e paragonare all’uomo il loro comportamento nella lunga notte siderale, si commenta da sé. Delirante è fare grazia di un eufemismo. Ne sacrificheranno una trentina, non prima di avergli erogato dosi di radioattività per saggiare le conseguenze a lungo termine sui circuiti cerebrali. Come se il cervello umano e quello di una scimmia scoiattolo funzionassero nello stesso modo. Ancora una volta la «scienza» prende la via della sperimentazione animale e ancora una volta sbaglierà e otterrà dati fuorvianti, specie per quanto concerne la sfera psicologica che nell’uomo è elemento specifico e non soggetto ad ardite e incongrue trasposizioni.


Del resto lo stesso Wesley Smith, fisico nucleare di fama mondiale, scrive su First Thing: «Non sono contrario alle sperimentazioni scientifiche sugli animali realmente necessarie (corsivo nell’originale, nda), ma questo esperimento non è necessario». Lasciatele ai loro giochi, nelle loro foreste. Anche loro hanno diritto a vivere su questo pianeta.

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