Lo sciopero a scuola? Fumo sociologico

Caro Granzotto, comincio a capire l’editore de la Repubblica De Benedetti che ha deciso di farsi cittadino svizzero. E Mussolini che diceva che governare gli italiani non è difficile, ma è inutile. Ma come si può essere più in malafede dei politici e dei sindacalisti che chiamano la piazza a manifestare e a scioperare contro la riforma Gelmini? Come possono definire la reintroduzione del grembiule, del maestro unico, del voto in condotta e dei voti in cifre «provvedimenti devastanti che provocheranno gravissimi danni al sistema dell’istruzione pubblica» o, come ha detto Veltroni, che mirano ad «aumentare le diseguaglianze»? Io capisco che nella polemica politica ogni argomento è buono, ma indire lo sciopero generale per un grembiule da indossare in aula mi sembra demenziale e mi vergogno un po’ di essere italiano.


Demenziale sì, ma anche facile, caro De Marco. La scuola è infatti di natura sciopereccia: lo sono gli studenti delle classi superiori che preferiscono di gran lunga sfilare in corteo che non stare dietro i banchi. Lo sono gli insegnanti ex sessantottini o quelli, più giovani, che di Sessantotto ne sognano uno nuovo (come potrebbe chiamarsi, nel caso? Zerotto? E loro zerottottini? Mah). Lo sono quei genitori girotondini che hanno preso gusto a partecipare alle manifestazioni di piazza con il pupo, iscritto alla materna, a cavalluccio. Insomma, vedendola dal punto di vista della partecipazione, a proclamare uno sciopero della scuola si fa sempre centro. Che poi tutto l’ambaradam non abbia senso, i primi a saperlo sono proprio i promotori e i loro fiancheggiatori (la sedicente società civile, cioè). I provvedimenti adottati dal ministro Gelmini sono infatti difficilmente censurabili anche dall’oppositore più in malafede che ci sia. E sul risvolto che più attiene alle premure sindacali, il taglio delle cattedre e di conseguenza lo sfoltimento del personale insegnante, ha già detto la sua il Capo dello Stato riconoscendone la necessità. E la cosa finisce lì. Sul resto, la sinistra procede a tentativi di arrampicata sugli specchi. «Il grembiule a scuola è una maschera ipocrita», titolava un mese fa l’Unità, dedicandogli, al grembiule, ben un’intera pagina. A sostegno del concetto, il giornale che fu di Gramsci, mica di Gianni e Pinotto, chiamò Mario Lodi, «il maestro per eccellenza», il «pedagogista ad honorem». Diceva Lodi che siccome il grembiule «è una maschera che copre le diversità» non c’è ragione di metterlo «uguale per tutti quando sappiamo che i bambini sono tutti diversi». Non contento, aggiunse: perché, visto che ci sono le diversità, «non cogliere in esse la ricchezza dello scambio reciproco?». E lei capisce, caro De Marco, che quando uno se ne esce con le ricchezze dello scambio reciproco, significa che proprio non sa cosa dire e butta là un po’ di tritume sociologico a mo’ di fumo negli occhi. Lodi naturalmente non si limitava a deprecare il grembiule, ma anche i voti («un ritorno alla scuola per analfabeti») e il maestro unico.

Concludendo che le riforme della Gelmini «sono frattaglie» e che la scuola giusta, che funzionava, che formava, che dialogava, che impostava «le fondamenta della società democratica» era la sua, fine anni Quaranta. Guarda caso proprio la scuola dei grembiuli, dei voti compreso quello in condotta e del maestro unico. Però fa l’istess: sciopero!

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