Mi accingo con qualche imbarazzo a ricordare Indro Montanelli, nel quinto anniversario della morte. Imbarazzo non perché il ricordarlo sia difficile, ma perché è troppo facile. Lo fanno tutti, con toni e contenuti che lasciano supporre - tra chi scrive o parla di Indro e Indro stesso - una assidua dimestichezza, una intima comunanza di vedute, una profonda reciproca stima. È tutto un florilegio di «mi disse un giorno», «mi confidò in gran segreto», «solo a me rivelò» e così via.
Accade sempre quando se ne va un personaggio carismatico, e tutti sappiamo quanto Montanelli lo fosse. Non dovrei dunque sorprendermene e nemmeno rammaricarmene, ma confesso che ho a volte la sensazione di vedermi scippato il grande amico di decenni - e l'amicizia è stata temprata in una fraterna consuetudine di lavoro - e di vedermi invece presentati tanti Indro di maniera: adattati ai gusti e alle esigenze di questo o quel clan ideologico, culturale, giornalistico. Il che ha portato ad alcune singolari conseguenze. La prima è che nella più parte di queste rievocazioni il ventennio di Indro alla direzione del Giornale - a mio avviso il più impegnato e il più significativo di un'esistenza pur così ricca di momenti importanti - viene retrocesso e magari bollato come una devianza, poi riscattata dal litigio con Silvio Berlusconi. L'ufficialità delle cerimonie promosse dal Corriere della Sera rimuove il periodo in cui Montanelli, pur avendolo in cuore, non solo fu fuori dal Corriere, ma contro il Corriere. La sinistra, che quando occorre sa essere tartufesca più d'un Andreotti, riconosce adesso all'ultimo Montanelli, perché deberlusconizzato, il merito di rappresentare un liberalismo alto, nobile, colto, risorgimentale. Prima lo definiva, con ruvida schiettezza, fascista.
Su tutt'altro versante Vittorio Feltri ha dedicato ieri a Montanelli un articolo. Divertente ed effervescente, come di solito sono i suoi. Arrivando alla conclusione che Indro, se vivesse ancora, scriverebbe su Libero. Un'altra appropriazione, secondo me indebita per varie ragioni, una in particolare. Feltri ha molto insistito ultimamente, anche con titoli di prima pagina, sul tema dei pannoloni: eretti a simbolo della senescenza rimbambita e maleodorante. Per motivi anagrafici me ne sono sentito un po' offeso. Lo so, Indro aveva irritato Pertini con un «suonati» affibbiato ai suoi ottant'anni. Ma il controcorrente era un santuario dell'impertinenza il cui accesso veniva riservato a una sola specie, la montanelliana. I pannoloni non sono controcorrente, appartengono a un giovanilismo modaiolo. Più sul serio, voglio ricordare - per quanto riguarda il «dove scriverebbe Montanelli» - che più d'una decina d'anni or sono Edilio Rusconi, l'editore, lo invitò insieme a me nel suo appartamento milanese. Lì ci espose una sua idea: ossia il lancio - sommesso - d'un settimanale di poche pagine, di veste povera, di alti contenuti, di firme prestigiose. Qualcosa che come prodotto poteva somigliare al primo Borghese o al Foglio, ancora di là da venire. A Indro l'idea - che poi si esaurì - piacque moltissimo. In una pubblicazione di quel tipo avrebbe ancora trovato sfogo la sua monelleria di conservatore anarchico. Cui sono sicuro sarebbero piaciute poco le smancerie religiose di teocon e neocon.
Uomo senza figli, almeno riconoscibili e riconosciuti - diceva che è meglio non averne perché non si sa chi ci si mette in casa - Indro ha tuttavia una sterminata famiglia e una sterminata famiglia e prole giornalistica. Si professa suo discepolo Marco Travaglio, polemista di talento miracolato professionalmente dall'esistenza di Silvio Berlusconi e dalla mole processuale che l'ha accompagnato. Ha reso un doveroso omaggio a Montanelli, nel suo fondo di congedo dalla direzione del Gazzettino,il mio amico Luigi Bacialli. È paradossale che in questo amarcord manchi - perché si preferisce non interpellarlo - Gian Galeazzo Biazzi Vergani, che di Montanelli al Giornale fu il braccio destro e l'uomo ombra, che poi ruppe con lui, ma che di segreti montanelliani ne custodisce più di tutti gli altri seguaci del Maestro messi assieme.
Montanelli non ha più nemici, e questo di sicuro lo insospettisce molto, là dove si trova. Di recente s'è saputo che con la sua donchisciottesca leggerezza aveva addirittura proposto alla signora Clara Booth Luce, ambasciatore Usa a Roma negli anni Cinquanta, un golpe qualora la liberta fosse stata minacciata. Era una sorta di romantico grido d'allarme, quello di Indro. Ma se di queste lettere si fosse saputo prima che litigasse con il Cavaliere l'avrebbero coperto d'invettive e accuse: e magari avrebbero chiesto una commissione d'inchiesta che di lui si occupasse. Per fortuna gli inediti sono affiorati allorché Indro era redento, per la sinistra, dall'antiberlusconismo, e l'indignazione a comando non è esplosa. Meglio così? O forse no? Ciò che davvero importa non è il giudizio degli addetti ai lavori, è il giudizio del popolo di Indro: una parte del quale se n'era distaccato.
Mi aveva detto, consapevole della sua fragilità di nonagenario (incorro anch'io, vedete, nel vizio commemorativo): «Mario, io non morirò. Io mi spegnerò». Come una candela. Ma la fiamma rimane.
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