Scola incontra la cultura e sul palco ride con le battute di Giacomo

Dopo la fragilità, il mondo di cultura e comunicazione. Nel calendario del «ritorno» di Angelo Scola a Milano, è il momento delle parole. E delle immagini, perché guest star al Museo diocesano è Giacomo Poretti, di Aldo Giovanni e Giacomo, che fa ridere il cardinale (e la platea) con la sua infanzia divisa tra la fede nell’Inter a San Siro e la devozione alla Madunina in Duomo: «Io le prometto di non perdere di vista Dio ma lei non perda di vista l’oratorio». Ironia amara: «A Milano ci sono le code in via Montenapoleone per il saldi, ma ci sono più code alla Caritas per i pasti».
Scola nel suo intervento insiste molto sugli oratori, sulla parola «insieme», sull’«opera comune che può rendere Milano un’oasi». Racconta il suo progetto politico: «La nostra società è plurale, con mondovisioni opposte e contrastanti». Ma «il bene sociale è il fatto stesso che dobbiamo stare insieme». Un tragitto verso l’«in-contro» e il «com-promesso nobile» da ricercare: «Dobbiamo trasformare questo essere insieme tra diversi in una scelta politica condivisa. Quest’opera può rendere Milano un’oasi». Un ruolo centrale lo hanno gli oratori: «Sono Chiesa che abbatte tutti i bastioni e accoglie i cittadini di domani». Fondamentale è la «gratuità» e se c’è crisi politica è perché è sparita dall’orizzonte della società.
Il vescovo Angelo parla di sé e ne viene fuori il ritratto di uomo aperto, curioso, per dirla con sant’Agostino, inquieto. Uno che non ci sta dentro nei «pregiudizi» su di lui e nell’immagine stereotipata del teologo topo di sacrestia. Uno a cui non piacciono i falsi clichés sulla Chiesa retrograda e arroccata. Ricorda quando, ragazzino, andava all’oratorio e il suo don Fausto gli leggeva Musil, Dostoevskij, Faulkner: «E avevo dodici anni...».
Si definisce «ambrosiano purosangue» e così per il suo arrivo a Milano «è giusta la parola ritorno dopo tanto peregrinare». È un nostos da epica della fede: «Dopo tanto girare, dopo tanti compiti diversi e contrastanti, torno a casa. Passata la botta del distacco da Venezia, mi è entrato nel cuore un sentimento di pace che mi consentirà di affrontare un compito impervio». Di più: «Un compito che, in età non più giovanile, fa tremare le vene ai polsi».
Racconta la prima volta che ha sentito la parola Milano. «Avevo un sette anni, a pronunciarla erano due soldati, uno nero e uno bianco, che tornavano ubriachi. Ha colpito la mia fantasia». Da lì il liceo e la grande discussione per la mostra di Modigliani «con i nudi e lo scandalo che provocò». Rieccolo a Parigi nel 1968: «Lì ho avuto molti incontri belli della mia vita. Ero seminarista ma la Chiesa era aperta. Abbiamo suonato ai campanelli di Derrida, Althusser, Lévinas, de Certeau».
All’incontro, dal titolo «La cultura e la comunicazione sociale», sono saliti sul palco Gianni Riotta («Che fine ha fatto la nostra fede da bambini?»), il rettore della Statale, Enrico Decleva (cita Cesare Correnti su Milano: «se non resti la più civile, diventerai la più villana»), lo scrittore Ferruccio Parazzoli («Via Padova è meglio di Buenos Aires che è negozi e sgomitata continua»). Nelle prime file Gad Lerner, il direttore del Piccolo, Sergio Escobar.


È un predicatore senza indice alzato, anche quando parla dei guai della Chiesa: «Da Sant’Anatalo (il primo vescovo di Milano, ndr) a oggi, la Chiesa di Milano è un luogo umano con tutti i difetti degli uomini di Chiesa, inclusi i miei, e con tutti i peccati. Penso che non ci facciamo illusioni su questo».

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