Scontri in Buenos Aires, pm chiede fino a 6 anni

Enrico Lagattolla

«L’11 marzo sono state offese indiscriminatamente persone che nulla avevano a che fare con la manifestazione, ed è stata devastata non dico una intera città, ma una via di Milano». Gli scontri di corso Buenos Aires rievocati nella requisitoria del pubblico ministero Piero Basilone. Poi, la richiesta di condanna: 5 anni e 8 mesi di reclusione per tutti gli imputati ai quali è contestato anche il reato di devastazione, e 6 anni per gli unici due imputati non incensurati. Alle spalle del magistrato, il grido «Liberi tutti! Liberi subito!». Sono i parenti e gli amici degli autonomi arrestati dopo la mezz’ora di follia che ormai quattro mesi fa mise in scacco Milano. E, da quattro mesi, 25 di quegli autonomi sono in carcere.
Le accuse sono tante, e pesanti: a vario titolo vengono contestati il concorso morale e materiale in devastazione e incendio, il porto illegale di esplosivi in luogo pubblico, l’adunata sediziosa, la resistenza e la violenza a pubblico ufficiale, le lesioni volontarie aggravate e il porto di armi improprie. Venticinque di loro (gli altri quattro sono indagati a piede libero, due di questi hanno chiesto il patteggiare un anno di carcere) sono chiusi nelle gabbie della prime corte d’assise d’appello. L’unica sufficientemente grande ad accoglierli tutti, e aperta dal gup Giorgio Barbuto, che decide di rendere pubblica l’udienza. «Sussiste non soltanto la consapevolezza dell’evento che si stava eseguendo - prosegue Basilone -, ma il dolo intenzionalmente voluto». Non solo. «La barricata è stata realizzata come scudo, e ha permesso che accadesse quello che è accaduto». Inclusa l’esplosione di un razzo «che avrebbe potuto causare la morte di un carabiniere», ricorda Basilone.
Una requisitoria dura, richieste di condanna ritenute «sproporzionate» da uno dei legali degli imputati, l’avvocato Mirko Mazzali. «Quel pomeriggio - ricorda - semplicemente era in atto una manifestazione che andava contro la Costituzione». Il corteo della Fiamma tricolore si sarebbe snodato lungo corso Venezia. La Procura, per quel corteo, avrebbe poi aperto un’inchiesta per apologia del fascismo. Dunque, «gli imputati sono scesi in piazza per impedire un altro reato», insiste Mazzali. Il motivo della «contromanifestazione» dei centri sociali, quindi, «non solo è nobile, ma approvato dalla maggioranza dei cittadini, perché lo dice la Costituzione quando vieta manifestazioni del disciolto partito fascista». Di qui la richiesta dell’avvocato, che vengano considerate, oltre alle attenuanti generiche, anche quella prevista dall’articolo 62 numero 1 del codice penale, ovvero l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale. «Non sono teppisti - insiste più volte il legale, che chiede che venga derubricato il reato di devastazione, e l’assoluzione degli imputati -, questi ragazzi non sono come i teppisti che vediamo negli stadi».


Fuori dall’aula, i genitori degli arrestati denunciano ancora una volta «il clima di isolamento e pieno di pregiudizio» nel quale si starebbe celebrando il processo, e si dicono «basiti». «Sono stati chiesti 155 anni e centinaia di migliaia di euro di risarcimento danni. Sono state addotte prove inconsistenti, e nemmeno un danneggiamento a loro individualmente imputabile».

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