E se fosse tutto un fatto personale? Se la politica centrasse poco o nulla con i venti di crisi che agitano il Pdl? Sono queste le domande, e i dubbi, che affiorano al termine della giornata di ieri, la prima dopo lannuncio di Fini di voler traslocare dalla comoda Casa delle libertà, quella che in ventanni gli ha permesso di passare da irrilevante capo del partito post fascista a presidente della Camera passando per vicepremier e ministro degli Esteri. Silvio Berlusconi ha presieduto lufficio di presidenza del Pdl (già convocato da tempo) e, presenti anche i fedelissimi finiani, ha chiesto il veto. Le carte messe sul tavolo dagli inviati del presidente della Camera si sono dimostrate debolissime. Cioè generiche proteste per lo spazio concesso alla Lega, lamentele sulla borsa tenuta stretta da Tremonti, rimproveri per una supposta disattenzione ai problemi del Sud. Di fronte alle controdeduzioni i colonnelli non hanno potuto che abbozzare. E cioè: la Lega ha perso peso nel governo (un ministero in meno, quello dell'Agricoltura), Berlusconi ha visto Bossi da solo tante volte quante Fini (sette), di soldi non ce ne sono indipendentemente dalle scelte del ministro dellEconomia, il Sud è malmesso non da oggi ma da circa 150 anni.
Né Denis Verdini, coordinatore del Pdl, ci ha messo molto a dimostrare, dati alla mano, come le quote stabilite al momento della fusione, il famoso 70 (Forza Italia) e 30 (An), siano rispettate al millimetro nella spartizione dei posti di comando. Anzi, la proporzione tra gli eletti alle recenti regionali premia un po di più lex An.
Da qui limpressione, ma forse anche qualche cosa di più, che quello di Fini sia un irrazionale problema psicologico, di pura e semplice invidia verso il Cavaliere. Aveva una azienda, An, su cui comandare a piacimento e ora non ce lha più. Sta cercando pretesti per rimettersi in proprio ma non li trova, ma soprattutto non trova dirigenti e manovalanza. Al di là delle cifre di propaganda, a tutto ieri sera soltanto 18 deputati e 9 senatori sarebbero disposti a seguire davvero Fini sulla strada dello scisma. In entrambi i casi si tratta di un numero non sufficiente a formare neppure un gruppo parlamentare autonomo. Gli altri parlamentari possibilisti, propensi cioè a non scontentare almeno a parole lex capo, si sono ritirati in tutta fretta di fronte alla fermezza dimostrata per tutta la giornata da Berlusconi e dall'intero gruppo dirigente. Non si tratta. Chi firma documenti scissionisti è fuori, per sempre.
Paradossalmente, il vero Pdl è nato ieri. Dopo lattacco di Fini, la stragrande maggioranza del partito non si sente più ex di qualche cosa ma per la prima volta parte della stessa famiglia. E comunque è la prova che Fini non può rivendicare per sé la quota del 30 per cento attribuita ad An. Per il semplice motivo che da ieri è accertato il suo essere minoranza anche tra gli uomini del suo vecchio partito. È il capo di una minoranza della minoranza, un po poco per rivendicare posizioni di comando o di leadership. In altri tempi avrebbe cacciato, come è successo, in malo modo i suoi colonnelli disobbedienti. Oggi deve sottostare ai voleri di La Russa, Alemanno, Gasparri, Matteoli e altri meno noti ex sudditi. Che anche ieri gli hanno ribadito che di uscire dal Pdl proprio non se ne parla, e non soltanto perché tutti loro tengono famiglia ma perché mancano le ragioni per farlo e un progetto politico alternativo che vada oltre laccontentare legocentrismo del capo.
Limpressione è che il peggio è passato ma la questione avrà i suoi strascichi. A tutti conviene lasciare a Fini e al suo gruppo una via di uscita onorevole. È quindi possibile che nelle prossime ore le colombe prevarranno sui falchi. Salvo colpi di scena lappuntamento è per giovedì quando, come da programma già fissato, si riunirà la direzione nazionale.
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