Il barile di petrolio a oltre 60 dollari, la guerra del gas tra la Russia e l'Ucraina e le tensioni geopolitiche nel mondo arabo e musulmano impongono di ripensare la strategia globale adottata finora dai Venticinque dell'Unione Europea. In realtà, l'idea di Europa unita era nata proprio attorno all'energia: la Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio (1952) organizzava in comune la produzione e la fornitura del combustibile necessario alla ricostruzione post-bellica; Euratom (1957) era la soluzione collettiva all'approvvigionamento energetico all'indomani della crisi di Suez. All'epoca, l'Europa di Robert Schuman e Jean Monnet voleva premunirsi contro le difficoltà future. Ma gli egoismi nazionali - come spesso accade nell'Ue - hanno impedito l'istituzione di una vera politica comune dell'energia.
Ma energia comune significa innanzitutto una politica estera comune. Oggi l'Europa è divisa sostanzialmente in due campi: chi ha fiducia totale nella Russia di Vladimir Putin e nel suo gas (Italia, Germania e Regno Unito), e chi è iper-critico nei confronti di quella che considera ancora l'Unione Sovietica, ma che dipende quasi al 100 per cento dalle sue risorse energetiche (i Paesi della Nuova Europa). Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati. La Russia, infatti, è un fornitore inevitabile per le sue straordinarie riserve di gas e petrolio (già oggi la maggior parte del gas che consumiamo è russo), ma ha anche la pericolosa tentazione di usare le sue risorse come arma di politica estera (a chi non obbedisce viene tagliato il gas).
Per parafrasare quanto il presidente americano, George W. Bush, ha detto sul suo Paese, oggi l'Europa è «drogata» di gas e petrolio provenienti da regioni instabili del mondo. L'Ue è ostaggio di regimi dittatoriali e il suo approvvigionamento è messo in discussione da guerre e tensioni internazionali. Da questo punto di vista, l'esecutivo di Bruxelles chiede che l'Ue «parli con una voce sola», ma non basta: è infatti indispensabile diversificare i fornitori, trovando nuove vie di transito, come l'oleodotto Baku-Tbilisi-Cheyan che porta l'oro nero dall'Asia centrale fino all'Europa, ma che è stato boicottato dagli europei perché promosso dagli Stati Uniti. Diversificare i fornitori significa, però, mettersi anche nelle condizioni di poter utilizzare le loro ricchezze energetiche, in primis puntando sui rigassificatori che tanto in Italia fanno discutere, ma che sono indispensabili se vogliamo poter importare gas senza essere alla mercè di dittatori e guerre.
Tutto questo, evidentemente, ha un costo: almeno 600 miliardi di euro gli investimenti necessari per i prossimi venti anni. I singoli Stati membri non possono sostenere tale costo: occorre un'azione comune per sviluppare le infrastrutture energetiche che garantiscano la sicurezza dell'Europa. L'esecutivo Ue si limita a «invitare» la Banca europea per gli investimenti (Bei) a finanziare progetti che aumentino la sicurezza energetica europea e migliorino le infrastrutture. Ancora una volta è un passo avanti, ma insufficiente. Due sono gli strumenti che possono essere attivati congiuntamente: gli «action plan» europei - introdotti grazie alla presidenza italiana dell'Ue per colmare i gap infrastrutturali europei - finanziati attraverso l'emissione di Eurobond. E il nucleare. L'esecutivo Ue intende identificare i costi e vantaggi reali del nucleare, senza, però, intaccare il diritto sovrano degli Stati membri a decidere in questo settore. Ma questa non è la risposta adeguata perché la scelta nazionale dei mix energetici ha effetti su tutta l'Europa. Il nucleare deve essere incoraggiato con investimenti e coordinato politicamente a livello europeo.
Per affrontare la sfida energetica, dunque, è necessario innanzitutto superare le reticenze e gli egoismi degli Stati membri dell'Unione Europea.
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