Roma Sì d’accordo, «il ghe pensi mi non ha portato nulla di concreto». Ok, «in che cosa è migliorata l’Italia di Berlusconi? In nulla». Certo, «Berlusconi ha portato valori al rovescio e una doppia morale. Bella vita e comportamenti a piacimento per il Capo e la sua cerchia». Berlusconi, insomma, «impedisce la riscossa del Paese». Va bene, ma dopo? Nel senso: si sottragga all’oratoria di Pier Luigi Bersani la necessaria dose di anti-berlusconismo. Che cosa resta? Luoghi comuni, immagini sghembe, frasi fatte. Più che fatte, stracotte. «Il nostro compito è aiutare l’Italia a riprendere un sogno ». Sogno? No, anzi: «Serve un grande risveglio italiano». Addirittura: «Dobbiamo suonare le nostre campane». E persino: «Cari compagni e compagne, rimbocchiamoci le maniche e prepariamo un futuro migliore per l’Italia». È stato in questo preciso momento che - nella piazza Castello di Torino invasa dai cammellati di cento pullman vecchia maniera- anche la celebre casalinga giunta da Voghera è stramazzata al suolo. Morta stecchita. Vittima dell’Ovvio del Popolo. Il linguaggio del caro «compagno segretario », un giorno, sarà anch’esso studiato nei corsi di comunicazione politica. Un linguaggio frutto non tanto (non solo) dello sforzo di un politico messo a giocare in un ruolo non suo, quanto diretta espressione della vacuità del progetto politico che incarna. Così, salvando la buona fede del soldato Bersani, si converrà che se uno si trova a vendere il nulla- e non è un «mago» - la gente se ne accorge. Inutile poi lagnarsi se, al confronto, la prosa sgangherata di Di Pietro, le peripezie di Casini, la dialettica almirantiana di Fini facciano faville e diano l’impressione di un’opposizione veramente «tosta». E invece, al di là di certi significati letterali, quando il leader pidì annuncia un’«opposizione durissima per ogni ora e giorno a venire se nei prossimi mesi avanzerà l’irresponsabile traccheggiamento di un governicchio» viene da fare spallucce. Una notizia doveva recare, questo comizio conclusivo della festa nazionale del partito, e Bersani l’affossa in cento giri di politichese, in un merletto piacentino che non dà scosse. Tutto risaputo, banale, prevedibile fin nei dettagli. Il succo è: i finiani siano coerenti e ci diano una mano a «rifiutare qualsiasi norma che discrimini i cittadini davanti alla giustizia », il governo venga in Parlamento e riconosca la crisi conclamata, si rimettano al presidente della Repubblica ». Noi, il Pd, siamo pronti a un governo di transizione per fare la legge elettorale «e mettere in condizione di sicurezza democratica le prospettive del Paese» (sic). Era tutto noto. E allora? Poi dice che uno si affanna a trovare al più presto un competitor capace di affrontare il più feroce degli avversari. Anche quando Bersani parla dei fatti di casa propria la noia strangola la carotide,l’uggia trafigge un cuore già grigio. «Noi siamo un collettivo... Non accetterò che ci si tiri la palla in casa, se la palla è di là nel loro campo... Noi siamo ben più forti delle nostre debolezze». E su Vendola: «Siamo pronti a discutere con la coalizione tutti i percorsi comprese ovviamente le primarie, le abbiamo inventate noi e nessuno può tirarci per la giacca». Nello stesso sbadiglio cosmico precipitano contraddizioni e promesse vacue, dal Nuovo Ulivo «affidabile» al «voto che non ci fa paura». Un sussulto sembra arrivare quando il leader sfida la Lega sul suo linguaggio: «Abbassi la cresta chi vuol darci lezioni... Non parlate più di Roma ladrona se siete lì a tenere il sacco a quattro ladroni di Roma...
Che ci state lì a fare con il miliardario? Attenzione: uno che va troppo ad Arcore può lasciarci la canottiera». Ma ci si era sbagliati, neppure la battuta funziona. Sembra quella dello zio a fine pranzo: si abbozza e non si ride.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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