Le scritte sui muri sono i tatuaggi delle culture. Segnano le epoche con una mano di vernice che subito si fa invisibile ma resistente. Infatti sopravvivono a se stesse senza subire mutazioni antropologiche. In fondo si estinguono molto tempo più tardi delle culture dominanti o alternative o di nicchia o popolari o elitarie o solitarie che le hanno prodotte. Presto si rendono «invisibili» alla mano che ha graffiato, macchiato o pennellato e per ciò continuano a vivere per molto tempo in luoghi impensabili e improbabili. Queste tracce possono essere lette anche come indicazioni di una caccia al tesoro che come premio ha la sollecitazione della nostra memoria. Però esse rimangono i marchi di unepoca.
Ricordo che sotto due cavalcavia pochi anni fa ho letto: «Vota Caradonna» e «Viva Gianni Motta» (il primo politico dellMsi, il secondo ciclista che nella metà degli anni Sessanta fu per una breve stagione lalternativa a Felice Gimondi). Ma la scritta che più colpì la mia fantasia di ragazzino fu «Almirante boia», soprattutto perché, un giorno del 1968, fui spettatore di una sequenza rigorosamente in bianco e nero. Giorgio Almirante teneva un comizio nella piazza della mia città. Era piccolo, in camicia bianca e giacca scura. Si muoveva a scatti. I poliziotti erano vestiti con abiti verdi e stazzonati, gli stessi che trovavo al mercato di Porta Portese la domenica mattina. Calzavano anfibi ammuffiti. Erano pallidi e assonnati. Gli anarchici avevano bandiere che luccicavano come sete nere, ed erano i figli dei notabili. Non erano morti di fame... Invece nei cessi dei bar (da quelli dei paesi a quelli di via del Tritone o dellAmbra Jovinelli o del Volturno in via Volturno a Roma), si leggevano solo scritte oscene, ma eterosessuali. Per quelle gay bisognava aspettare, non era arrivato ancora il momento. Però, è ovvio, per «Kossiga Boia» ci vogliono gli anni Settanta e tutte le strisciate politiche: di destra e di sinistra. Nella notte di quel famoso giorno del 1977, quando allUniversità di Roma presero a sassate Luciano Lama, ero a fare pipì dinanzi alla cancellata della Sapienza appena uscito da una discoteca di piazza Bologna. Lessi: «Lama frustaci».
Poi, negli anni Ottanta, apparve «Dio cè». Questa scritta era una calamita che ti risucchiava gli occhi e ti avvitava nel punto esatto dove la leggevi: sui cordoli di cemento, addirittura sulla sbarra di un passaggio a livello, ma quasi sempre era spruzzata sui cartelli stradali. Ti folgorava, sbiancava i muri come se in un colpo cancellasse tutti gli slogan del decennio precedente. Pareva il gesto di un pittore davanguardia che, abbandonato lolio, si mette a usare vernici, spray e acrilici.
Negli anni Novanta, sul muraglione di fronte allaeroporto di Ciampino, notai con sorpresa (anzi mi sembrò un miracolo di stile) la frase enigmatica e lucida: «Morte ai maghi e alle streghe Viva Cristo Re». Era linquietudine di fine millennio? Era il medioevo che tornava? No, si trattava della volontà di smascherare le sette sataniche, gli imbroglioni della cabala, le superstizioni (non a caso gli anni Novanta sono indicativi al riguardo). «Morte ai maghi e alle streghe Viva Cristo Re» in realtà anticipa linadempienza della costituzione europea a proposito delle nostre origini cristiane. Anticipa l11 settembre e le pesti e i conflitti odierni. Smaschera quasi due decenni prima la fragilità della Chiesa di Roma rispetto agli attacchi dellindifferenza del mondo. In sostanza rilancia la necessità di una nuova proposizione del simbolo della croce e della passione umana (vedasi latteggiamento di papa Benedetto XVI).
Oggi, invece, i muri sono tappezzati dalle scritte dei ragazzi del muretto: «Cicci ti amo». A caratteri cubitali: «Ti amerò per sempre». E su tutte: «Io e te tre metri sopra il cielo». Ora non è affatto sicuro che questi messaggi appartengano per forza al frasario dei reality show o di una specie di neoriflusso giovanilistico.
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