Lo scrittore ha (s)parlato di letteratura e di salotti invidiosi

Lo scrittore ha (s)parlato di letteratura e di salotti invidiosi

Bisogna essere grati ad Alessandro Piperno per la capacità di mettersi a nudo anche davanti a una platea scelta, come quella che l’altra sera ha seguito il primo di un ciclo di incontri su «Gli scrittori si raccontano», ideato dalla Mondadori per il restyling della Sis, collana che raccoglie i titoli degli «Scrittori italiani e stranieri»: «Una dicitura che non significa niente», ha chiosato l’ospite, «perché non mi pare esistano scrittori intergalattici». A sollecitare la facondia dell’autore di Con le peggiori intenzioni, tra letture da Proust e da Gadda, c’era Antonio Franchini, direttore generale della narrativa della casa di Segrate e innescatore di aneddoti che hanno divertito il pubblico del teatro Franco Parenti, a Milano. Lungi dal ritrarsi, dotato com’è di autoironia, virtù tanto più preziosa nel mondo della critica dominato da malcelata invidia, Piperno ha recitato il ruolo dell’ingenuo amante della letteratura, tuttavia pronto a cogliere i vizi dell’ambiente. Certo, l’invidia è forse il principale. «Per quanto uno possa sognare di diventare qualcosa, appena ci riesce ma incontra dei colleghi che hanno qualche caratteristica diversa da lui, subito inizia a desiderare di diventare qualcos’altro. Non basta più essere uno scrittore, si vuol diventare uno scrittore con cattedra universitaria, o con collaborazione al Corriere della Sera, oppure tradotto dalla prestigiosa Gallimard... In un ambiente con propensione alla vanagloria come il nostro, l’invidia è alquanto diffusa. Io, per esempio», ha svelato con perfidia, «sto per uscire con un nuovo romanzo e in questi giorni ho ricevuto numerosi messaggi di auguri, tutti da scrittori».
Ma la maggior parte delle frecciate, Piperno le ha rivolte verso se stesso, disegnandosi come via di mezzo tra Woody Allen e il Peter Sellers interprete dell’Ispettore Closeau, collezionatore di gaffe e di grotteschi complessi di colpa, come di chi si sente spesso vivere fuori posto. Figlio di padre ebreo e di madre cattolica, ha confessato di essere sempre visto come ebreo dai cattolici e cattolico dagli ebrei. Fu il padre a iniziarlo alla letteratura. Insofferente al fatto che quel figlio non leggesse, gli regalò Il segreto dell’anonimo triestino nel quale si narrava la storia di un ragazzo secchione e innamorato di una compagna di liceo, ma incapace di dichiararsi. «Era il mio ritratto perfetto». Indagando sull’autore, Giorgio Voghera che si era celato dietro il nome del padre Guido, il Nostro conobbe la comunità ebraica triestina, ma anche la tendenza di scrittori come Svevo e Moravia a nascondere la propria appartenenza ebraica. Completamente immersi in questa comunità sono invece i romanzi di Piperno, per questo subito avvicinato a Philip Roth, sebbene lui si senta più prossimo a Kafka e alla letteratura ebraica europea. Ma nemmeno il successo del suo debutto nel 2005 lo ha appagato: «Per uno che ha scommesso sul proprio fallimento, un exploit come quello poteva avere risvolti negativi».

Così è scattato il meccanismo di espiazione e non a caso il protagonista di Persecuzione - Il fuoco amico dei ricordi, suo secondo libro di cui a giorni uscirà il sèguito (Inseparabili) è un primario d’ospedale che all’apice del successo precipita nella vergogna a causa della più infamante e pretestuosa delle accus: pedofilia. «In questo senso, quello che lo sembra di meno, è invece il mio romanzo più autobiografico».

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