Una scrittrice aggrappata al Muro

Una scrittrice aggrappata al Muro

«Niente paura. L’altra lingua, pensai mirando ancora una volta a ingannare me stessa mentre mettevo le stoviglie nell’acquaio, mi rifacevo il letto, ritornavo nella stanza che dava sulla strada, mi sedevo finalmente alla scrivania - l’altra mia lingua che aveva cominciato a crescermi dentro, ma certamente non si era ancora sviluppata del tutto, avrebbe sacrificato pacatamente il visibile all’Invisibile, avrebbe cessato di descrivere gli oggetti attraverso il loro aspetto - automobili rosso pomodoro, bianche, santo cielo! - e avrebbe fatto apparire sempre di più l’invisibile nella sua essenzialità».
È anche nel breve testo autobiografico che Christa Wolf (nata Ihlenfel, sposò lo scrittore Gerhard Wolf nel 1951) pubblicò pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, Che cosa resta (edito in Italia da e/o come quasi tutte le sue opere), che si rende trasparente la ricerca poetica di una vita, che si è interrotta ieri a Berlino all’età di 82 anni dopo una lunga malattia. Nel testo - di cui si fa spesso menzione soltanto quando si ricorda la discussa collaborazione della scrittrice tedesca con la Stasi, la polizia segreta della ex DDR - l’autrice di Riflessioni su Christa T. (1968), Trama d’infanzia (1976), Cassandra (1983), Medea. Voci (1996) descrive, con lo straordinario senso di sospensione teatrale che contraddistingue il suo stile, la giornata di una intellettuale sorvegliata appunto dalla Stasi, che si muove tra le mura domestiche penetrate dai poliziotti mentre sa che fuori ondeggia il magma grigiastro di una città squallida. La violazione della casa è violazione dell’io autentico e il recupero di una lingua con cui poterlo di nuovo esprimere diviene perciò l’unica forma possibile di salvezza: «Noi siamo consapevoli della debolezza delle parole di fronte al movimento di massa, ma non abbiamo nessun altro mezzo che le parole. Che ancora adesso mandano via, mitigano la nostra speranza», leggeva con voce pacata ma solenne la Wolf ai suoi concittadini nell’appello che lanciò l’8 novembre 1989 nel notiziario serale della televisione della Germania est, scongiurandoli di rimanere nella loro terra, senza lasciarsi sopraffare dalla «sfiducia nel rinnovamento».
Appello inutile, il giorno dopo le frontiere vennero definitivamente aperte. Eppure al centro c’erano ancora le parole, la lingua e il loro potere sperato, invocato, eppure ancora troppo nascosto.
Le parole, e dunque i libri e le opere, erano, per la Wolf, «una delle maggiori scrittrici tedesche del dopoguerra e la più importante cronista della Ddr e della spartizione tedesca», come la definisce lo Spiegel, l’unica forma di lotta. Contro la censura. Contro la dittatura, sebbene, pur dichiarandosi socialista da sempre, proprio di non aver mai nemmeno con le parole condannato del tutto l’autoritarismo della DDR venne ripetutamente accusata, soprattutto dopo la riunificazione. Contro la sorda pressione della Storia sul progetto romantico di due giovani, divisi dai loro stessi ideali, come ne Il cielo diviso (1963). Ma anche e soprattutto contro la discriminazione sessuale, tanto che in Cassandra, la figura marginale, inascoltata, stritolata dalla Storia, in Medea e nella ricostruzione della scomparsa della società matriarcale molte donne negli anni Settanta e Ottanta ritrovarono l’indicazione della strada di coesione utopica che potesse portare la loro alterità misteriosa verso l’identità riconosciuta. Le parole e dunque la lingua, e più di tutte quella materna - «Che cosa resta?», si chiedeva Hannah Arendt in una intervista del 1964. «Resta la lingua... la mia lingua madre. La lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho sempre volutamente conservato». Sapeva bene, la Wolf, che nel 1939 entrò a far parte della Lega delle fanciulle tedesche e vide la propria adolescenza segnata dalla formazione nazista, che cosa significava aggrapparsi alla lingua madre anche nei momenti più amari.


E forse per questo l’unico che difese l’amica di una vita nel momento delle accuse fu il Nobel Günter Grass, a sua volta, in sèguito, travolto da un’ondata di polemiche per la confessione del suo arruolamento nelle SS.

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