"La scrittura è il dono di trasformare il dolore in bellezza e speranza"

L'infanzia, i rifiuti, il successo: parla David Almond, uno degli autori per ragazzi più letti e amati

"La scrittura è il dono di trasformare il dolore in bellezza e speranza"

Lo scrittore nasce nell'infanzia. Sono gli anni Cinquanta a Felling on Tyne, vicino a Newcastle. David Almond cresce con cinque tra fratelli e sorelle, in una famiglia molto cattolica. È un bambino felice ma sperimenta fin da subito quanto la vita possa essere tremenda: la sua sorellina Barbara muore a un anno, quando lui ne ha sette; a quindici anni perde il padre. È solo quando, molti anni dopo, riesce a trasformare questa infanzia bella ma dolorosa nelle storie di Contare le stelle che David Almond diventa David Almond: quello di Skellig, La storia di Mina, Argilla, La guerra è finita... Insomma uno degli autori per ragazzi più amati e letti nel mondo, vincitore dell'Hans Christian Andersen Award nel 2010, della Carnegie Medal e del Premio Nonino. Ora Salani, editore italiano di Almond, ripropone Contare le stelle (pagg. 240, euro 13,90), il suo libro più autobiografico: Almond ne parlerà oggi al Festivaletteratura di Mantova in un incontro con Davide Morosinotto sugli "Esploratori di mondi" (ore 15, Casa del Mantegna).

David Almond, partiamo dalla storia che dà il titolo al libro: da dove viene?

"Dall'idea che solamente Dio possa contare tutte le stelle nel cielo, mentre noi non dobbiamo osare. Era una istruzione che ci ripeteva sempre il prete, quando eravamo bambini. Però, se sei un essere umano, hai la responsabilità di provare a contare le stelle".

Che rapporto ha con la fede oggi?

"La religione è stata molto importante mentre crescevo: era parte delle nostre vite quotidiane e della nostra comunità. Poi a un certo punto ho iniziato a lasciarmela alle spalle, fino a che ho capito che non me ne sarei mai potuto liberare e avrei dovuto accettarla, insieme alla sua influenza su di me e sulle mie storie. Ed è stato proprio a quel punto, che ho scritto i racconti di Contare le stelle".

Scrive che le storie "cercano di riscoprire ciò che è andato perduto" e che inventare è il nostro modo per ricordare.

"Credo che tutte le storie facciano proprio questo: mantenere vivo il passato. L'ho capito quando ho scritto Cucina, la storia in cui ci sono mio papà e mia sorella Barbara, come se fossero ancora vivi e esistessero davvero nel mondo, lì in mezzo al resto della famiglia, anche se era un'invenzione, era tutto frutto dell'immaginazione. È una capacità molto commovente ma anche molto creativa, quella di poter fare rivivere le persone, farle essere parte del mondo e dare loro una voce".

Come ha fatto a trovare la voce della sua sorellina?

"Lei è morta troppo piccola per averne una, perché aveva un anno. Cucina è stata l'ultima storia che ho scritto perché mi spaventava, ma sapevo di doverlo fare: ho messo tutti noi insieme in cucina, con questa bambina, non ancora capace di parlare, che però parlava. È un grande privilegio della scrittura poterlo fare. Per me affrontare la mia tragedia e quella di mia sorella è un modo di trascendere il mio dolore personale e di offrire qualcosa al mondo; qualcosa che non è solamente dolore e perdita ma anche bellezza: non è solo fare i conti con la mia sofferenza, bensì ricostruire qualcosa che sia pieno di speranza".

Ha detto: "Ogni parola scritta è un atto di speranza". È davvero così?

"Sì. Viviamo in un mondo terribile, pieno di pericoli e di problemi ma, da scrittori, possiamo creare storie, in modo che ogni singola parola sia un atto di speranza. Speranza nel fatto che la nostra comunità umana possa andare avanti con la sua civiltà e non essere distrutta".

Nei suoi libri ci sono sempre moltissime ali...

"Uccelli e ali, ovunque. Da ragazzo, mia mamma mi toccava dietro le scapole e mi diceva: qui era dove avevi le ali quando eri un angelo. Ricordo ancora il suo tocco e quel senso che tutti avessimo potenzialmente delle ali. Quanto agli uccelli, credo siano creature straordinarie".

Come si parla di morte e dolore in un libro per bambini?

"Sono temi che io non posso evitare. Da Skellig in poi, in tutti i miei libri ci sono la presenza e il pericolo della morte; ci sono la tristezza e la gioia, perché per me è importante dire la verità su quello che è il mondo: terribile, ma anche meraviglioso".

Come ha iniziato a scrivere per ragazzi?

"È capitato. Ho scritto le storie di Contare le stelle e ho sentito che qualcosa era cambiato in me: ho capito che poteva essere un libro sia per adulti, sia per bambini e ho provato il senso di una liberazione, di un nuovo inizio. E poi, subito dopo, dal nulla è saltato fuori Skellig: appena spedita la mail all'editore con Contare le stelle ho sentito la storia nella mia testa, e ha continuato a sgorgare...".

Come le storie nella testa di Mina?

"Eh... Mina è me in molti modi e spesso dice quello che penso delle storie".

Che cosa pensa?

"Che ce le raccontiamo da milioni di anni e che abbiamo iniziato a vivere insieme proprio per raccontarci le nostre storie. Esse ci rendono ciò che siamo, e racconteremo e ascolteremo storie fino alla fine dei tempi".

Quando ha capito che sarebbe diventato uno scrittore?

"Ho sempre saputo, fin da quando avevo 7 anni, che avrei scritto libri: scrivevo, disegnavo, scarabocchiavo sui miei taccuini. E lo faccio ancora oggi, su dei blocchi da disegno, per avere grandi pagine vuote a disposizione".

È stato facile farne la sua professione?

"Tutt'altro. Solo a 47 anni ho iniziato a guadagnarmi da vivere con la scrittura. Ho ricevuto moltissimi rifiuti, praticamente da ogni casa editrice del Regno Unito, ma sono andato avanti. Solo con Skellig sono potuto diventare uno scrittore a tempo pieno".

Come nasce il suo linguaggio, magico e allo stesso tempo in grado di parlare di morte ai bambini senza finzione e senza retorica?

"Chiarezza e semplicità. Amo la lingua, le parole, il loro movimento e amo essere preciso in tutto. E cerco di presentare una storia nel modo più bello e chiaro possibile".

È così semplice?

"No. Mi richiede un lungo lavoro. Per Skellig mi sono serviti vent'anni. Ogni scrittore deve scoprire e sviluppare la propria voce, e io ho impiegato molto tempo. E, oltre a lavorare sulla chiarezza e la purezza della lingua, credo nelle storie: sono molto più intelligenti di me".

In che senso?

"Le storie hanno una loro

dinamica e una loro logica, che di volta in volta devo scoprire; e poi, una volta scoperte, devo trovare il modo di permettere alle storie di prendere vita e apparire sulla pagina. E così diventano anche parte di me, alla fine".

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