Scrive un commercialista: «Leggete quanto paga questo mio giovane cliente»

Caro direttore,
le scrivo da mio posto di lavoro (sono un commercialista) ed ho appena terminato una dichiarazione unico meritevole della più ampia pubblicità. Il contribuente è un giovane che si è rimboccato le maniche ed ha aperto una partita Iva optando per il regime dei «contribuenti minimi» (quello in cui si paga una imposta sostitutiva del 20 per cento al posto di tutte le altre). Con un reddito di circa 10.000 euro nel 2008 pagherà: - il 20 per cento di imposta sostitutiva; - circa il 25 per cento di Inps (è il primo anno di attività per cui non ha pagato acconti) - circa il 20 per cento di Inps in acconto (pari all'ottanta per cento del 25). Tirando le somme (20+25+20 = 65) il settore pubblico gli sta chiedendo circa i due terzi di quello che ha guadagnato lo scorso anno, a fronte (è bene non dimenticarlo) di servizi (sanità - giustizia - trasporti etc. etc.) che paiono fare acqua da tutte le parti. Spero che non lo faccia, ma mi chiedo cosa dovrei rispondergli se mi dovesse chiedere un parere sulla opportunità di lavorare «in nero». Io sono sempre stato un sostenitore del centrodestra, ma a volte ho l'impressione che sui temi a noi più congeniali dovremmo fare di più e meglio.

Sono convinto anch’io che questa dichiarazione dei redditi meriti un po’ di pubblicità. E sono convinto anch’io che il mondo delle partite Iva e dei piccoli imprenditori meriti un’attenzione speciale, soprattutto nei prossimi mesi quando su di loro si abbatterà implacabile la coda della crisi. Ai servizi che fanno acqua da tutte le parti, infatti, va aggiunta, caro lettore, un’altra discriminante non da poco: il nostro giovane con la partita Iva, se domani fallisce e chiude la sua attività, resta con il sedere per terra. Non ha cassa integrazione, non ha scivoli, buonuscite, sindacati che lo proteggono. Non ha niente di niente. E anche questo è un prezzo un po’ troppo caro da pagare per chi versa già il 65 per cento del suo reddito allo Stato...
Diceva Reagan: «Le tasse sono quella cosa grazie alla quale ciascuno di noi lavora per lo Stato, senza aver diritto a un concorso per diventare dipendente pubblico». E un mio amico era solito ripetere: «Mi hanno detto che bisognerebbe pagare le imposte con un sorriso. Io ci ho provato. Ma loro volevano soldi». Ma c’è poco da scherzare purtroppo. Nella sua lettera, che ha la sintesi numerica fulminante tipica dei commercialisti, emergono due problemi ben noti nel nostro Paese: a) si tende a punire l’intraprendenza; b) si tende a punire la legalità. Per quanto riguarda il punto a) è piuttosto evidente: se il suo giovane fosse stato un bamboccione, avrebbe trovato sicuramente qualche Onda pronta a difendere i suoi diritti. Se avesse cercato un impiego nel parastato, avrebbe trovato cori sindacali pronti a difendere il diritto al posto fisso. Invece si rimbocca le maniche, si mette a lavorare, apre una partita Iva. Gli presentano il conto: 65 per cento va allo Stato. Le pare normale? No, certo. E dunque - punto b) - lei teme che sia tentato dal «nero», cioè dall’irregolarità. E in tutta coscienza si chiede: con che coraggio potrò dirgli di no?
Purtroppo la crisi mondiale, che ha appesantito i bilanci degli Stati, non permette grandi sogni, almeno a breve, per quanto riguarda la riduzione delle tasse. È già un miracolo se non aumenteranno. Però, come dicevo, occorrerebbe un po’ più di attenzione nei confronti dei lavoratori autonomi. Soprattutto ora. Magari distribuendo quel 65 per cento su chi, invece, di tasse non ne paga per nulla.

Perché a me continua a sembrare strano che nel nostro Paese, con tutti gli yacht e le Ferrari che vedo in giro, le persone che dichiarano redditi superiori ai di 120mila euro l’anno siano solo 176mila... (questo però magari non glielo dica al suo giovane cliente)

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