Mai più classi ghetto. Casi in cui 19 bambini su 21 sono stranieri - vedi via Paravia - non si devono e non si possono più ripetere. Con i genitori italiani che cercano un’altra scuola dove trasferire i propri figli. E, paradossi dei paradossi, quando l’altra scuola di zona, in via Monte Baldo, ha l’80% degli iscritti italiani. Paradossi della burocrazia che rischiano di creare corti circuiti sui banchi. Ecco allora che dall’anno prossimo per la formazione delle classi non si prenderà più come riferimento il singolo plesso scolastico, ma unità territoriali più ampie che permettano di mescolare le nazionalità e formare sezioni più omogenee ed equilibrate. Tradotto: da settembre la scuola di via Paravia potrebbe non esistere più e i nuovi iscritti venire «spalmati» negli altri istituti del quartiere. E lo stesso discorso vale per via Dolci, via Mac Mahon, via General Govone, tanto per fare esempi noti. Se si continua ad affrontare la questione degli stranieri scuola per scuola non se ne viene fuori - il ragionamento di via Ripamonti - serve quindi una impostazione nuova del problema, allargando i tasselli del puzzle, ovvero ragionando per unità territoriali più ampie. La dimostrazione? L’istituto Radice che da tre anni tengono banco sui giornali seguendo lo stesso identico copione: classi dove una minoranza sempre più esigua degli iscritti è italiana.
Ieri il direttore scolastico regionale Giuseppe Colosio e il suo omologo provinciale, Giuliana Pupazzoni hanno incontrato la dirigente dell’istituto Radice. Oggetto della convocazione urgente: far luce sulla situazione e sul comportamento della dirigente Agnese Banfi. «Così non va - aveva tuonato il 7 settembre Colosio - casi del genere non si devono più ripetere. Eppure nella circolare ero stato chiaro...». Il problema è duplice: da un lato la questione del tetto del 30% degli stranieri per classe, con la possibilità di concedere deroghe, ha dimostrato la sua debolezza. Su 311 primarie, 43 avevano chiesto la deroga, ottenendola, a patto che fosse garantita «un’adeguata competenza della lingua italiana degli stranieri, in quanto hanno precedentemente frequentato un biennio di scuola dell’Infanzia in Italia» come recitava la circolare del 29 aprile. Ma lasciare che alla dirigente il compito di garantire la conoscenza dell’italiano, basandosi solo sulla frequentazione di due anni di materne, si è rivelato un criterio troppo soggettivo. E che permette margini di manovra alle esigenze di sopravvivenza degli istituti, legata a doppio filo al numero degli iscritti.
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