A scuola si insegnano troppi diritti e pochi doveri

Egregio dott. Granzotto, come è mia abitudine, scorro i giornali nel fine settimana. Scopro, tuttavia, che lei, di solito così scrupoloso, fino alla filologia, mi cita, il 5 giugno scorso, mio malgrado, forse per eccessivo amore di battuta, in un contesto che non definirei tipico del suo stile. Infatti, se è vero che ho, a suo tempo, presieduto la commissione incaricata di elaborare un’ipotesi di riforma scolastica basata sul proposito di adattare il proprio ordinamento sui bisogni e sulle esigenze formative dei ragazzi, è non meno vero che, con questo principio, si intendeva proprio l’opposto di ciò che lei sembra aver voluto suggerire nella sua risposta. Nel caso specifico, si era proposto un ordinamento flessibile e internamente articolato del sistema educativo, dove trovassero spazio e dignità non solo i percorsi liceali dai 14 ai 19 anni, ma anche quelli di istruzione e formazione professionale dai 14 ai 23 anni (o anche lei appartiene alla schiera di chi pensa che i ragazzi possano maturare solo frequentando i licei?). Inoltre, di recuperare la connessione intenzionalmente interrotta, negli ultimi anni, tra comportamento e profitto/risultato, tra educazione e istruzione, tra etica e logica, tra deontologia e competenza tecnica. Quindi altro che complice indulgenza, per docenti e allievi, nei confronti di una scuola disimpegnata ed evasiva.
Non è un caso, del resto, che la riforma Moratti abbia poi reintrodotto nel nostro ordinamento la valutazione del comportamento e, sia con il Profilo dello studente di 14 e di 18 anni sia con l’introduzione dell’educazione alla convivenza civile nel I e nel II ciclo, abbia tentato proprio di confrontarsi con le sue parole: «Ammaestrare la gioventù ad adempiere i doveri e non semplicemente crogiolarsi nei diritti, educandola ad affrontare e a misurarsi con le difficoltà, riconoscendo le gerarchie, rispettando i divieti, osservando la disciplina». Che poi sia facile, nella scuola italiana, in queste cose, passare dalla «dottrina» alla «pratica» è tutto un altro discorso.

Probabilmente lei ignora, egregio professore, che il botta e risposta coi lettori ha origine da una mia provocazione: costituire un comitato per il ripristino delle pene corporali. Fuor dal paradosso - che paradosso poi tanto non è - ci si lamentava del fatto che a partire dagli anni Sessanta s’'è affermato il principio che nella scuola sovrano è l’alunno, titolare di una sfilza di diritti e di un solo dovere: quello di entrare in classe (ove non si frappongano le assemblee, i comitati, le gite, le manifestazioni, i «momenti» di creatività, l’attività sportiva che dà diritto al «credito» eccetera eccetera) e lì stare. Impunito se dovesse commettere qualche marachella. Confortato dal fatto di procedere nel corso degli studi senza che nessuno tenga conto del profitto. Matematicamente certo, al cento per cento, di terminare quel noioso «percorso» con un bel diploma, l’ambìto «pezzo di carta».
È o non è un fatto che da quarant’anni la scuola sforna semianalfabeti? Che come attestano decine di sondaggi - anche di istituti internazionali - la gran parte degli studenti universitari maneggia poco non tanto la sintassi, ma la semplice grammatica? E che il loro livello culturale è fra gli ultimi in Europa? È o non è un fatto che disciplina, merito e gerarchia sono concetti che non hanno più cittadinanza nelle aule? Lei afferma che risulta sempre malagevole passare dalla «dottrina» alla «pratica», ovvero al recupero, cito, della connessione tra comportamento e profitto/risultato, tra educazione e istruzione, tra etica e logica, tra deontologia e competenza tecnica. Stando così le cose, io direi che è impossibile. Vi si oppone un macigno, lo Statuto degli studenti (pardon: delle studentesse e degli studenti), atto normativo della Repubblica italiana emanato nel giugno del ’98 da Scalfaro, Prodi e Berlinguer rispettivamente capo dello Stato, Primo ministro e ministro della Pubblica istruzione.
Impugnando quello, non c’è studente che non se ne faccia un baffo, scusi il linguaggio, della connessione fra comportamento e profitto/risultato. Che non se ne faccia un baffo, riscusi il linguaggio, del principio di autorità, delle gerarchie, della disciplina. E non mi venga a dire che quel macigno è inamovibile: se c’è la volontà di farlo, non mancano di certo gli strumenti legali, democratici, per toglierlo di mezzo o per neutralizzarne gli effetti. «Valutazione del comportamento", «profilo dello studente» sono tutte belle definizioni, ma nei fatti rappresentano un deterrente alla indisciplina o peggio? Nelle sue ebdomadarie letture dei giornali non le sarà certo sfuggita la vicenda del professore che dopo aver rivolto ripetuti inviti a non telefonare o ricevere telefonate nell’ora di lezione sottrasse il cellulare a una studentessa. Bé, a passare i guai fu il professore, mica la studentessa (la quale evidentemente durante le lezioni di «educazione alla convivenza civile» dormiva.

O telefonava, appunto).

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