La scuola del terrore dove diventi qualcuno soltanto se ammazzi

L'elogio del martirio nei verbali dell'inchiesta sui jihadisti addestrati in Italia: "Mi sentivo un dio in terra quando dicevo: devo ucciderne 60"

La scuola del terrore dove diventi qualcuno soltanto se ammazzi

Odiano la vita, e la morte è l'ossessione, la salvezza. Nascere è una sciagura ma la morte può diventare il Paradiso: «Perché uno ha fatto degli anni di carcere, è in mezzo alla strada a Milano, nevica, fa freddo, non ha da mangiare, non ha una coperta, rischia l'espulsione, nel suo Paese ha vent'anni di carcere da scontare... l'unica soluzione, cioè, è morire! Se sei in quelle condizioni e ti parlano di Paradiso... tu dici io sono già morto, cioè, peggio di così non... non può capitarmi. E quindi ti piace l'idea». È il mondo al contrario. Il mondo dei terroristi. Di chi viene indottrinato a morire per Allah contro l'Occidente. Di chi vive in Lombardia «con una doppia vita», lavoro regolare e addestramento a combattere con gli estremisti. A parlare è Jelassi Rihad. Jelassi è tunisino ed è finora uno dei più importanti collaboratori di giustizia nelle inchieste sul terrorismo islamico in Italia. La sua testimonianza, con quella di altri due «pentiti», è la visione dall'interno di un orrore in costruzione, come si crea un terrorista, la base psicologica da cui i reclutatori partono per attirare nuovi adepti da portare alla Guerra Santa, con Al Qaeda prima e con l'Isis adesso. Le dichiarazioni dei tre collaboratori sono contenute nella motivazione della sentenza di condanna di tre tunisini, un marocchino e un palestinese ad Andria per associazione eversiva con finalità di terrorismo, firmata dal gup di Bari Antonio Diella.

Chokri Zouaoui, un altro collaboratore, descrive come monta nella testa il mito del martirio: «Io sono un esempio per te e per gli altri. E diventi anche un personaggio che ha un valore...Mi sentivo veramente un Dio sulla terra, a dire: "Guarda, oggi, cavolo, devo uccidere 50 o 60 persone, Madonna santa! Per la causa islamica». Diventa euforia: «Tutti ti portano sulle mani, ti mettono un tappeto rosso sul quale potresti camminare, è una sensazione... ».

L'infatuazione aumenta, ma gli aspiranti terroristi conducono una vita normale. Rihad riassume così le due esistenze, quella pubblica e quella privata: «Il terrorista fa una vita di doppio senso. Fa la vita del delinquente, del terrorista e un'altra vita, diciamo normale». E' importante avere «un lavoro in regola come copertura». In Italia «l'extracomunitario che lavora contribuisce allo Stato, è apprezzato».

Dopo il lavaggio del cervello, quella scuola della morte, racconta ancora Zouaoui, ti viene da dire: "Cavolo! Nel mio Paese dove io potrei essere ricco non posso; quella ricchezza viene sfruttata dagli occidentali, ed in più, cavolo, pure massacrano la mia religione». E la morte più desiderata diventa quella «nel combattimento».

Rihad viveva nel milanese. La Lombardia era un punto di partenza per raggiungere l'Afghanistan per l'addestramento nei campi, dopo l'indottrinamento. Fa i nomi: «Essid Sami Ben Khemais. Il mio punto di riferimento quando abitavo in via Dubini a Gallarate nr. 3». Il capo «aveva contatti con tutto il mondo. Tutte le linee, le linee intendo per mandare le persone nei campi di addestramento. Lui aveva la linea ...del nord, faceva Varese, Chiasso, poi Belgio e poi lì prendevano gli aerei...Aveva a disposizione sia la casa a a Gallarate ed un altro appartamento a Legnano». I «soggetti» venivano «ospitati per qualche giorno, date loro le lezioni, cioè il comportamento, e poi partivano direttamente perché è vicino. Un'ora siamo già alla frontiera». Si pensa sempre a Chiasso come punto di accesso in Italia, ma per i terroristi con regolare permesso era la frontiera al contrario, verso l'addestramento e la guerra.

Il gruppo, prima dell'arresto,

stava per costituire una cooperativa di operai a Legnano: «La Lombardia, puoi passare inosservato lì, anche in un paese piccolo, basta saper fare, diciamo, i fatti tuoi». I fatti propri, la doppia vita. Regolare e terrorista.

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