La stessa differenza che cè tra bere un caffè dorzo e un caffè espresso. Si legge un bel giallo, un bel noir, un bellhard boiled, e si ammira la perizia tecnica dellautore, le ricerche che ha fatto in biblioteca, la suspense che è riuscito a trasmetterci, la trama virtuosamente e vertiginosamente complicata; insomma, si ammira «la scuola americana» del metter giù i libri. Daccordo, ottima scuola, e sono tutte narrazioni anche più che leggibili. Poi però in libreria si incappa in un «romanzo in racconti» come La Mobile di Paolo Brera e Celeste Bruno (Mursia, pagg. 258, euro 17) e anche se la pagina non ha tutta la roboante apparecchiatura stilistica e scenografica di un, mettiamo, Dean Koontz, si sente la presenza della caffeina. O meglio, della realtà nuda e cruda, che è più caffeinica di tante fantastiche congetture dei bestselleristi seriali di oggi. E soprattutto la sentiamo più vicina a noi.
Se La mobile sta vendicchiando bene è proprio per questo: ogni milanese ci può ritrovare il ricordo e la trasfigurazione narrativa di questo o di quel crimine accaduto tra il 1998 e il 2006, magari nel suo quartiere. Anche perché, e non è un dettaglio, uno dei due autori - Celeste Bruno - è un ispettore della Mobile milanese, prima alla sezione omicidi, oggi al crimine organizzato, e ha seguito tutti, ma proprio tutti, i casi che ha messo nel libro, il suo secondo dopo Milano ad ogni ora. Vita da poliziotto.
Per esempio, il caso narrato nel racconto «Il bersaglio nellimbuto», che però i milanesi ricordano come «la sparatoria di Ponte Lambro» del maggio 2000. Una famiglia sta rincasando, la sera: allimprovviso si trova sotto una gragnuola di fuoco. «Il clou di una serie di sparatorie avvenute in precedenza - ci racconta Bruno -; un regolamento di conti attraverso undici proiettili, tanti ne furono esplosi. Niente morti, ma i cittadini del quartiere la ricordano ancora oggi e molti mi hanno scritto dopo aver letto nel racconto dettagli sullindagine che allepoca non mi fu ovviamente possibile rivelare. I colpevoli erano due calabresi. Tentarono di fuggire chiedendo aiuto a un napoletano chiamato lascensorista, poiché nascondeva la droga in cassette a loro volta nascoste sopra i vani degli ascensori che riparava. Li catturammo tutti». Nel racconto lispettore Nicola Violante - trait dunion narrativo di tutti i casi narrati e alter ego di Celeste Bruno - indaga fino a scoprire intorno alla sparatoria un tessuto di crimini che allepoca resero impossibile la vita nel quartiere.
Poi cè il caso di «Commandos metropolitani», intitolato così per la sua forte componente cinematografica, solo che fu un fatto vero, del 1998 anche quello, e nella memoria collettiva è la «sparatoria di via Faenza». Due bande giovanili - una del Corvetto, laltra della Barona - si fronteggiano per via di una ragazza, quasi come in un remake di Romeo e Giulietta. Il 9 maggio di quellanno, davanti al pub The drouthy duch in via Faenza, le due bande si incontrano coi rispettivi «padrini» per tentare una conciliazione. Ne esce invece una pioggia di fuoco. Un veicolo dellAtm si ferma e fa sdraiare i passeggeri sul pavimento. Nel locale, pieno di gente, si scatena il panico. Tutto per una ragazza, dirà qualcuno: ma poi si scoprirà che questo era solo un pretesto. «In realtà - ci dice Bruno - alcuni spacciatori della banda della Barona avevano sconfinato in Corvetto. Commandos metropolitani racconta questi retroscena».
Ma ci sono anche casi - giugno 2001 - come quello narrato in «Pit Bull», dal nome di un ragazzo di Quarto Oggiaro appassionato di pratiche sadomaso. La ragazza lo lascia, ma allultimo rendez vous sessuale le cose sfuggono di mano a «Pit Bull». Forse stringe un po troppo le corde attorno al collo della donna, che sviene. Lui la crede morta. La getta dal balcone, chiama il 118 dicendo che lei si è suicidata e poi si sparisce.
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