Federico Guiglia
Si vede che il declino non è uguale per tutti. Per la prima volta nella sua storia del dopoguerra la Germania ha superato (da un pezzo) i cinque milioni di disoccupati ed è stata ora costretta a riproporre linnaturale grande coalizione fra Cdu-Csu ed Spd; segno che persino il suo proverbiale sistema istituzionale non era così proverbiale come veniva decantato dalle sirene della politologia. La locomotiva tedesca fatica come non ha mai faticato in decenni, e la stabile alternanza dei governi traballa. Ma a nessun osservatore con la testa sulle spalle e con un minimo di conoscenza di quel Paese leader in Europa salterebbe in mente di pronosticarne, stile Economist, la decadenza.
La Francia e la Gran Bretagna, nazioni dallantica e generosa accoglienza, sono alle prese con problemi di identità, cioè di integrazione in una cultura nazionale e multi-nazionale condivisa; problemi che pochi avrebbero immaginato potessero esplodere addirittura con la violenza. La questione della cittadinanza è senza precedenti per dimensioni e polemiche, infiamma Londra a Parigi. Eppure nessun commentatore del pianeta sazzarderebbe a prevedere la morte di quello spirito universale che ha contributo alla grandezza dei due Stati.
Anche la più piccola ma appassionata Spagna vive un momento di contrapposizione politico-culturale che, paradossalmente, neanche allindomani della morte del dittatore Francisco Franco aveva conosciuto. Oggi impera il «con Zapatero o contro Zapatero» con tutte le conseguenze e le divisioni che tale unica possibilità determina. E ciò inevitabilmente si riflette anche sull'economia, che non sembra più tirare come negli ultimi anni, quando i giornali europei elogiavano la novità del «modello spagnolo» come la più moderna e incisiva del Continente. Tuttavia, sarebbe difficile trovare degli esperti pronti a decretare la fine della Spagna.
La crisi vale per tutti, di più, tutti sono colpiti da crisi diverse e profonde. A voler essere pignoli, si dovrebbe aggiungere che gli altri Paesi sono, purtroppo per loro, in balia di conflitti ben più gravi dei nostri in Italia, perché sono conflitti che non riguardano soltanto il sistema della politica, ma anche i grandi interrogativi dei valori, dei principi, dello stare al mondo come persone e comunità. Ciononostante, solo da noi e per noi si usa lespressione di «declino», quasi stessimo assistendo al tramonto della civiltà italiana. Perché? Perché per gli altri no ma per noi sì? Forse per lanomalia tanto vistosa solo in Italia, dove per tradizione pur di attaccare la maggioranza, da sempre l'opposizione di turno grida al «declino» del Paese, confondendo il legittimo e radicale dissenso verso la politica (in questo caso) del centrodestra con la masochistica dissoluzione dell'immagine stessa dellItalia e degli italiani: c'è poco da indignarsi se poi lEconomist fa la ribollita col solito brodino. Se noi per primi vediamo nero sul nostro destino, perché mai chi ci guarda con distacco - e spesso con invidia - dallestero, dovrebbe vedere rosa? Se i primi a dir solo male dellItalia sono i politici italiani per puro e provinciale amor di polemica, perché dovrebbero essere molto diversi il pensiero e la conclusione di chi ci guarda e giudica da fuori?
Se ne devessere finalmente accorto, magari con qualche anno di ritardo, anche il Professor Romano Prodi. Il quale, guarda un po, adesso ha chiarito alla platea del centrosinistra che certo, il declino cè, «ma non è fatale e noi possiamo invertirlo». Ma davvero? Non saremmo, insomma, proprio allinferno tanto evocato, bensì dalle parti del purgatorio appena invocato. E con discrete possibilità di risalita. Va da sé: se gli italiani al Salvatore saffideranno.
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