Rifarsi il seno con la stessa disinvoltura con cui si va dal parrucchiere per cambiare il colore dei capelli, è un oltraggio al proprio corpo che ormai si consuma senza troppo pensarci sopra. Trovo il fatto disdicevole: almeno ci si rifletta un momento, si valutino vantaggi e svantaggi, poi si decida con consapevolezza. Tuttavia se una donna vuole rifarsi il seno per un banale capriccio, penso che nessuno dovrebbe proibirglielo, se non, appunto, la sua cultura, la sua coscienza.
Arriviamo alle minorenni, della cui salute si preoccupa il governo con una legge: diventa un reato il seno nuovo di una ragazzina. Mi sembra di grande buon senso sostenere che una minorenne non debba andare sotto i ferri del chirurgo per soddisfare una vanità: tra l’altro, si presume, con conseguenze non indifferenti per la propria salute.
Il buon senso ci mette tutti d’accordo. Il problema è un altro: perché deve essere lo Stato a decidere di vietare? La ragazza che vuole sottoporsi alla chirurgia plastica non ha una famiglia? I soldi per pagare l’intervento non sono dei genitori? Se papà e mamma sono felici di vedere la figlia con un bel seno prorompente, perché questa gioia dovrebbe essere vietata da una legge dello Stato?
Ritorna il buon senso: se i genitori non comprendono a quali rischi per la salute va incontro la propria figlia sottoponendosi all’intervento chirurgico per rifare il seno, ci pensa lo Stato a spiegarlo e a vietarlo. Ma uno Stato liberale non si fonda sul buon senso, bensì sulla libertà degli individui, e ogni proibizione, ogni divieto sanciti da una legge, corrodono le sue fondamenta liberali.
In particolare, questa legge del sottosegretario Martini ha una valenza simbolica particolare: lo Stato contro la famiglia. Sia ben chiaro: se una minorenne può andare da un chirurgo per rifarsi il seno, vuol dire che ha il consenso dei suoi genitori, ha il denaro dei suoi genitori. Perché, allora, lo Stato deve surrogare le funzioni della famiglia? La risposta, dettata - sempre - dal buon senso, dice che se la famiglia è irresponsabile ci devono pensare le leggi dello Stato. Questo però non può essere il metodo di uno Stato liberale, perché deve mettere le persone, le famiglie, nella condizione di capire quale sia la sostanza del problema che vanno ad affrontare, e poi lasciare a loro l’ultima decisione. Per di più, uno Stato liberale deve credere nella possibilità che la famiglia (tutte le famiglie indistintamente) possa assumersi la responsabilità dell’educazione dei propri figli minori. Se invece interviene con leggi per soverchiare o correggere la sua autonomia, significa che non ha fiducia nell’istituzione famiglia.
Se una famiglia sbaglia, gravemente sbaglia mettendo a rischio la salute della propria figlia, non c’è niente da fare: lo Stato non intervenga. Quella famiglia farà probabilmente altri errori, forse molto più gravi nell’educazione dei figli, e tuttavia non deve essere sostituita dallo Stato nelle sue funzioni. Se ciò accade diventa regola, avremo uno Stato che decide quello che una famiglia deve insegnare o proibire ai propri figli.
A queste considerazioni la prima obiezione afferma che lo Stato deve tutelare i minori: per esempio, difenderli dallo sfruttamento perpetrato dalle loro stesse famiglie. Ma in questo caso lo Stato mette fuori legge la famiglia del minore sfruttato, dichiarandola incapace di sovrintendere all’educazione dei figli.
In teoria, una legge che proibisca ai genitori di accondiscendere al desiderio della ragazza di avere un seno nuovo, dichiara che quella famiglia non è in grado di educare i figli.
Sarà anche vero, ma quella legge fa entrare lo Stato liberale in una zona di divieti e di interferenze da cui deve restarsene lontano per non minare la sua stessa ragione d’essere, cioè la difesa della libertà dell’individuo e dell’istituzione famiglia. Anche la difesa della libertà di sbagliare. L’errore può essere una fondamentale esperienza di conoscenza; il divieto finisce per sollevare dalla coscienza della responsabilità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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