«Un marocchino per favore». «Voleva dire un moretto, senatore». Non è dato sapere se la direttiva l’abbiano messa per iscritto. Alla buvette di Palazzo Madama, l’unico ordine certo è quello che impone la consegna del silenzio, provi a chiedere e ti pare di stare al Sismi: «Non siamo autorizzati a dare informazioni interne». «Mi hanno detto però che è una questione di politically correctness - racconta un divertito senatore Franco Orsi, Pdl -. Ora aspettiamo di ribattezzare il cappuccino con un nome meno riconducibile ai frati». Ieri c’era la fila al bar del Senato. Tutti a chiedere un marocchino per verificare se fosse vero. Ebbene sì. Se i ciechi sono ormai «non vedenti» e i bassi saranno presto «verticalmente svantaggiati», non si vede perché il fervore egualitario non dovrebbe entrare anche nel lessico di chi sta dietro al bancone. E che importa se, insomma, il caffè marocchino è il più buono, con la panna e il cacao in polvere, e quindi, se mai, sarebbe un riconoscimento in più al popolo degli aromi e delle spezie. I baristi alla buvette li correggono, come se lorsignori onorevoli stessero dando prova di bassezza razzista.
Fra i pochi a non mettersi in coda alla cassa, ieri c’era il senatore Cesarino Monti, quello che da sindaco leghista di Lazzate per mettere al riparo il suo comune dalla costruzione di moschee fece inserire nel piano regolatore un codicillo che vietava le costruzioni «in stile moresco», e che, correva l’anno 1997, vinse la guerra contro l’allora ministro dell’Interno Rosa Russo Iervolino che lo voleva sollevare dall’incarico per aver assunto un’impiegata «padana doc».
«Non ordino marocchino per principio» commenta. E il politicamente corretto? «Di corretto conosco solo il caffè: ma corretto latte, perché sono astemio». Fra il divertito e l’indignato Francesco Casoli, vicecapogruppo del Pdl: «Siamo anche noi impegnati in un’operazione di pulizia semantica alla buvette: cambieremo nome ai baci di dama, troppo sessisti, alle lingue di gatto, antianimaliste, e soprattutto alle palle di Mozart, irriverenti verso il grande compositore». Ma se fosse vero, è dal lessico che bisogna partire per educare il Paese all’integrazione? «Ha certo un senso, ma anche la tradizione della lingua italiana ne ha, e un conto è la mancanza di rispetto, altra cosa è pensare che nominare marocchino un caffè sia segno di disprezzo».
Così, tocca scoprire che il «marocchino» deve il nome al colore di un tipo di pelle usata come fascia per cappelli in voga negli anni Trenta, il Marocco, che ha appunto una colorazione simile alla bevanda, e che nasce a Torino, dal «Bicerin» di Cavour, evoluzione della bevanda sabauda con l’avvento delle moderne macchine del caffè. «E questo dimostra quanto stupido sia il politically correct a tutti i costi» s’infervora Giorgio Stracquadanio. Lui sta alla Camera, dove il «marocchino» è ancora tale. Ma è autore di diverse crociate contro quello che ha definito «luogocomunismo». «È un atteggiamento nato a sinistra che inquina la vita sociale e disturba le menti - analizza -. Nel tentativo di nobilitare la persona apostrofata, le si scarica addosso il problema, inchiodandola a uno stigma sociale. Così, l’handicappato è “portatore di handicap”, come fosse colpa sua, o “diversamente abile”, una ridicolizzazione.
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