Se Napolitano fa il megafono del giovanilismo

Anche nel discorso di fine anno il presidente ha invitato i politici a occuparsi dei ragazzi. È solo l’ultimo di una lunga serie di richiami, non sempre lanciati in modo opportuno. Cari ragazzi, il posto fisso è un imbroglio di G. De Filippi

Se Napolitano fa il megafono del giovanilismo

Agli «anni verdi», quelli della gioventù, e al futuro dei giovani il Presidente della Repubblica ha dedicato gran parte del suo messaggio di fine anno. Lo ha fatto con evidente partecipazione e con appassionato richiamo alla classe politica del Paese perché si preoccupi dell’avvenire delle giovani generazioni nella consapevolezza che il futuro della democrazia è legato al futuro della gioventù. Una considerazione apprezzabile e giusta, anche se ovvia, perché i giovani sono e debbono essere, ovunque, il fulcro della vita di un Paese che non voglia imboccare la strada della decadenza morale e civile.
Già da qualche tempo Napolitano, con l’atteggiamento paternalistico di un buon nonno dei felici tempi che furono, ha assunto il ruolo di portavoce del malessere della gioventù, a cominciare da quello degli studenti che protestavano per la riforma universitaria.
Ha cominciato a farlo ricevendoli, questi studenti (o sedicenti tali), al Quirinale nel bel mezzo di una contestazione di piazza, confusa negli obiettivi e nella sostanza oltre che inquinata da presenze di persone poco raccomandabili, mentre il Senato stava esaminando e approvando la legge legata al nome del ministro Gelmini. Si trattava di un gesto inusuale per un capo dello Stato. Inusuale e inopportuno perché dava l’impressione che egli, in quanto carica suprema dello Stato, intendesse o potesse influire in qualche modo sulle decisioni del Parlamento con una evidente violazione del sacrosanto principio della divisione dei poteri. Inusuale e inopportuno, ancora, perché quel gesto apriva, di fatto, la strada a una prassi pericolosa: quella per quale le contestazioni all’attività legiferativa del Parlamento potrebbero essere trasportare dalla piazza (e magari anche dalle violenze della piazza) alle stanze di un Quirinale invocato e pensato come cinghia di trasmissione nei confronti del governo di lamentele e di richieste.
Ha continuato a svolgerlo, il presidente della Repubblica, questo ruolo di portavoce del malessere dei giovani anche nel momento nel quale, con un altro gesto, pur esso inusuale e inopportuno, ha varato finalmente la legge di riforma dell’Università accompagnandola, sorprendentemente, con una lettera al governo che accennava ad alcune «criticità» riscontrate nel testo approvato dal Parlamento. Gesto inusuale, perché prassi e normativa vigente vorrebbero che, se il capo dello Stato nutrisse perplessità sulla correttezza del provvedimento, lo rimandasse alle Camere per un supplemento di riflessione. Ma anche questo gesto, da un punto di vista solo politico, è inopportuno perché potrebbe apparire delegittimante o critico nei confronti di un provvedimento approvato, dopo un iter approfondito, dal Parlamento italiano.
Anche in occasione del messaggio presidenziale, il presidente Napolitano ha ribadito questo suo ruolo di portavoce del malessere dei giovani e più in generale del giovanilismo. Lo ha fatto in diversi passaggi a cominciare da quelli che invitano, in maniera implicita, il Parlamento a intervenire per ovviare a indicazioni o problemi che sarebbero emersi durante la discussione per l’approvazione della legge universitaria e non sarebbero stati tradotti in norma legislativa. Lo ha fatto, in questo caso, pur senza entrare nei dettagli, in una forma meno inusuale e inopportuna come esortazione alla classe politica a sviluppare un impegno che, anche in questo settore, possa essere visto come un «salto di qualità» della politica italiana.
Che sia necessario un «salto di qualità» nella politica del nostro Paese è fuor di dubbio, ma questo salto di qualità sarà possibile solo nella misura in cui, pur nell’epoca della globalizzazione, il Paese sia in grado di recuperare il sentimento della propria identità nazionale, della memoria storica, della coscienza del passato. In questo senso ha fatto bene il presidente della Repubblica a ricordare, nel suo messaggio, la generosità e la grandezza del moto unitario. E ha fatto bene anche a rammentare l’apporto, a questa impresa, del «volontarismo»: che altro non è, a ben vedere, se non una faccia del «giovanilismo».

Ma avrebbe potuto pur ricordare - lo diciamo per incidens - che il «volontarismo» a ben poco sarebbe servito se non si fosse innestato sul tronco robusto della tradizione e vocazione unitaria portata avanti dalla diplomazia cavouriana e dalla dinastia sabauda. Perché, in fondo, il «giovanilismo» ha un avvenire positivo quando non è sterile contestazione o non meglio precisato «malessere».

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