Se ne approfitta perché Dio non può testimoniare in aula

La mafia ha sempre cercato di ammantarsi di religiosità. Ma la Chiesa condanna i boss

Se ne approfitta perché Dio non può testimoniare in aula

Nella sua attesissima deposizione, resa dietro il paravento dell’aula giudiziaria di Torino, il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza ha fatto i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Ma ha anche, soprattutto, nominato Dio. Spatuzza ha infatti tenuto a far sapere di non essere soltanto un «collaborante», ma un pentito nel vero senso della parola. Un pentito che ha ritrovato la fede e che nel carcere di Ascoli Piceno, dov’è rinchiuso, ha sostenuto sei esami registrati all’Istituto superiore marchigiano di Scienze religiose. Ha ricordato il rapporto con il cappellano del carcere, padre Pietro Capoccia. Ha detto: «È stato un bellissimo cammino. Grazie a un cappellano che mi ha accompagnato in questo bellissimo percorso ho riscoperto le Sacre Scritture. Lo studio di teologia ha rafforzato il credo in Dio che c’era già nel mio cuore. Ero a un bivio: o amare Dio o mammona. E ho deciso di amare Dio». Spatuzza ha pubblicamente rivelato di essersi anche confessato con l’arcivescovo dell’Aquila, monsignor Giuseppe Molinari, il quale ieri non ha voluto commentare le sue parole, ma ha confermato la circostanza e l’incontro. L’accusa ha insistito particolarmente sull’argomento della conversione, con domande e sottolineature, proprio per avvalorare l’attendibilità dei racconti del collaboratore di giustizia.
L’uomo condannato a sei ergastoli, riconosciuto responsabile di 40 omicidi, tra i quali quello del sacerdote don Pino Puglisi, così come del rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito di mafia, poi ucciso e sciolto nell’acido, e della strage di via De’ Georgofili a Firenze, dove morirono anche due bambine; l’uomo che aveva rubato l’auto usata per l’attentato di via D’Amelio e che aveva imbottito di esplosivo l’auto per l’attentato allo stadio Olimpico di Roma, grazie al cielo poi non avvenuto, ieri ha dunque invocato il nome di Dio, e il suo percorso di conversione, per avvalorare quanto ha raccontato in aula.
La Chiesa ha sempre insegnato che la possibilità di redimersi, di riconoscersi peccatori, è offerta a tutti, anche agli assassini e ai mafiosi. Gesù è venuto per i malati, non per i sani, e dunque di fronte a qualcuno che davvero prende atto del male compiuto, se lo fa sinceramente e si pente cambiando vita, bisogna rallegrarsi. Del resto l’aveva chiesto, con parole di una straordinaria potenza, Papa Giovanni Paolo II, nel maggio 1993, al termine della messa celebrata nella Valle dei Templi di Agrigento, quando aveva lanciato un duro monito ai mafiosi chiedendo loro proprio di convertirsi. Davanti all’intimo della coscienza di un uomo e alle motivazioni che lo spingono a fare mea culpa, c’è bisogno di essere rispettosi, discreti. Ma non è certo discrezione quella che si è vista ieri nell’aula di Torino che ospitava il processo Dell’Utri. Anche se la prassi è antichissima e ancor oggi in molti casi presente nei pubblici giuramenti, non può bastare nominare Dio per avvalorare delle tesi o dei racconti. Non è l’esibizione del proprio percorso di fede a garantire le verità o le presunte verità processuali.
Tanto più che è stato ricordato innumerevoli volte quanto le organizzazioni mafiose usino a sproposito certe simbologie religiose. Durante la recente assemblea dei vescovi tenuta ad Assisi, il segretario della Cei, Mariano Crociata, rispondendo ai giornalisti sulla scomunica ai mafiosi ha detto che «non c’è bisogno di comminare esplicite scomuniche perché chi vive nelle organizzazioni criminali è fuori dalla comunione anche se si ammanta di religiosità». Bernardo Provenzano teneva sul comodino una Bibbia sottolineata, crocifissi e santini non mancano nei covi dei boss. E come non ricordare le polemiche, e i processi, subiti dal carmelitano padre Mario Frittitta, reo di essersi recato nel nascondiglio del boss Pietro Aglieri per confessarlo. Nel suo covo, Aglieri aveva realizzato una vera e propria cappella per la celebrazione della messa. Allora tanti furono i commenti sarcastici sulla religiosità del boss latitante e sull’ingenuità – ma ci fu chi parlò di complicità – del sacerdote che di tanto in tanto lo assisteva.

Certo, una conversione per essere sincera non può non passare per il rifiuto della violenza mafiosa, per la dissociazione da Cosa nostra e la piena assunzione delle proprie responsabilità. Ma essendo ben noto l’uso e l’abuso di una certa religiosità che è avvenuto e avviene in ambito mafioso, di fronte alle confessioni di Spatuzza è più che lecito dubitare, nonostante l’invocazione del nome di Dio.

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