È benemerita la denuncia - che il Giornale ha subito e compiutamente fatto - del carattere improvvisato delle riformucce liberalizzatrici del governo Prodi e della funzione che hanno di mascheramento della politica reale dell'esecutivo: dirigistica, ipertassaiola e asservita a centri di potere conservatore a partire dalla Cgil. È utile, inoltre, nell'analizzare l'iniziativa prodista, metterne in luce il carattere disperato, da ultima mossa di un gabinetto diviso su questioni di (fondo (dai pacs all'Afghanistan, dalle pensioni alla flessibilità del mercato del lavoro). Il come è stata preparata l'iniziativa ne indica gli obiettivi appunto disperati. «Inventati qualcosa», ha detto Romano Prodi al suo ministro Pierluigi Bersani. Peraltro proprio la disperazione governativa può paradossalmente aprire anche qualche finestra di modernizzazione che non va trascurata.
Ma oltre all'effetto son et lumière, non va sottovalutato come nella mossa prodiana non manchi quel tratto torbido che segna molte delle scelte dell'ex presidente dell'Iri, uomo dai solidi rancori, esperto negli intrighi di potere. Anche questa volta è presente la volontà di indicare l'ennesimo «nemico», confidando nella speranza sciagurata che settori di ceto medio si oppongano frontalmente, isolandosi e permettendo così a Palazzo Chigi di fare la figura dei progressisti senza in alcun modo toccare i veri nodi della modernizzazione italiana. Certo, vi è evidente qualcosa di odioso nel come si trattano i ceti medi interessati dai provvedimenti. Mentre sono mesi che i sindacati sono coccolati, consultati, rifocillati. Mentre i sindacati scrivono a «quattro mani» la Finanziaria. Benzinai, edicolanti e così via sono trattati come sudditi che non meritano alcuna consultazione.
La Cgil si comporta come padrona: Carlo Podda, il leader del pubblico impiego cigiellino, ha richiamato all'ordine il ministro Luigi Nicolais con nove parole: «Spero di avere capito male quello che ha detto», come un boss con i suoi picciotti. Nicolais tremante ha ritirato il suo piccolo tentativo di autonomia. Guglielmo Epifani si comporta con Tommaso Padoa-Schioppa, come un padrone arrogante farebbe con il suo maggiordomo: «Stia zitto, le sue parole danno fastidio». I lavoratori autonomi, che vivono della loro edicola, del loro chiosco, invece, devono bersi i provvedimenti già belli e confezionati.
Però proprio la consapevolezza della disperazione del governo deve illuminare la protesta dei ceti medi toccati: non deve prevalere l'esclusiva difesa degli interessi negati, va impostata una linea che coniughi i diritti di chi vive del proprio lavoro con obiettivi di modernizzazione. E soprattutto deve crescere la consapevolezza che la difesa degli interessi dei ceti medi non può essere svolta solo in un'ottica conservatrice. Il lavoro autonomo oggi pesantemente toccato su alcuni aspetti della sua condizione, è portatore di interessi più ampi: per un fisco meno rapace, per la flessibilità del lavoro dipendente che accompagni la crescita delle microimprese, per una pubblica amministrazione efficiente che non sia sottomessa a quella sorta di soviet inventati da governo e sindacati sotto l'etichetta della modernizzazione, per una tutela del risparmio che può nascere solo dal superamento del sistema bancocentrico dell'economia italiana così caro al potere prodiano.
Questa è la via opportuna per rispondere alla disperazione e alle provocazioni del governo Prodi. Anche con la consapevolezza che basta un piccolo sforzo, se ben mirato e intelligentemente organizzato, per sbarazzarci di questo esecutivo ormai allo sbando.
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