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Se no logo vuol dire fiducia Così è cambiata la nostra spesa

I prodotti di aziende famose venduti con la sola etichetta del supermercato Un business che in Italia vale 10 miliardi

Se no logo vuol dire fiducia Così è cambiata la nostra spesa

Si chiamano Sapori e dintorni, Fidel, Viviverde, Blues, Benesì, Bottega del gusto, Fiorfiore, Delizie del Sole, Viaggiator Goloso. L'elenco sarebbe lunghissimo perché vendono così tanto che ne nascono a ripetizione. Sono i marchi senza marchio, cibi «no logo», prodotti da aziende alimentari famose che però realizzano una parte (crescente) del loro fatturato senza incollare sulle etichette il proprio nome. Prodotti a marchio che rinunciano al marchio. Sembra una contraddizione alle sacre e redditizie regole del marketing, ma non è così. Tant'è vero che gli alimenti «private label», cioè messi in commercio con il marchio del distributore e non del produttore, sono sempre più diffusi nelle catene di supermercati europei, Italia inclusa.

«Con il no logo portato in auge da un libro di Naomi Klein quasi vent'anni fa ai tempi della contestazione no global, questo fenomeno non c'entra», avverte Enrico Finzi, sociologo dei consumi e presidente di Astra Ricerche. Ed è lontano anche dalla moda, anch'essa in crescita, di non esibire marchi vistosi su vestiti o borsette. Quella che nell'abbigliamento può essere una nuova tendenza low cost, cioè trascurare le griffe per acquistare nei grandi magazzini dove si trova di tutto, oppure abbandonare progressivamente anche sul lavoro gli abiti formali per estendere lo stile casual a ogni giorno della settimana, vale soltanto in minima parte per il cibo. I paragoni con il nuovo snobismo del guardaroba equo e solidale, con le pompe di benzina «no logo» o con i farmaci generici, non reggono. Osserva Finzi: «Nei supermercati non si vede quasi mai un prodotto privo di marchio. Sono pochissimi articoli, seminascosti e privi di valore simbolico per l'acquisto: per esempio, l'acqua demineralizzata per il ferro da stiro. Per il cibo il consumatore chiede garanzie e qualità anche quando cerca di risparmiare».

MERCATO SENZA ETICHETTA

Secondo uno studio realizzato da The European House-Ambrosetti per Marca, la recente fiera internazionale della grande distribuzione svoltasi a Bologna, quello dei prodotti a marca privata è un mercato che vale 10 miliardi di euro con previsione di arrivare a 11 miliardi alla fine del 2020. Tra il 2007 e il 2017 l'aumento è stato del 10 per cento in un settore che conta 1.500 imprese alimentari che lavorano per la grande distribuzione organizzata con oltre 200mila addetti tra diretti, indiretti e nell'indotto. Quasi tutte vendono anche prodotti a marchio proprio. Ma ormai in iper e supermercati le vendite a etichetta privata rappresentano il 35 per cento del giro d'affari dei produttori. I quali sono nomi tutt'altro che sconosciuti: Galbusera sforna biscotti poi venduti con le insegne di Esselunga, Coop, Auchan mentre Colussi lavora per Conad ed Eurospin. La pasta a marchio Esselunga è prodotta da Agnesi; Rummo, Zara e Liguori la forniscono a Coop, Conad, Lidl. Conserve Italia etichetta la sua passata di pomodoro con i marchi di Coop e Conad al contrario di Esselunga che preferisce Mutti. Le varietà di prodotti a brand privato coprono tutte le corsie delle grandi rivendite. E si tratta di confezioni uscite non da industrie sconosciute, ma da aziende alimentari note che trovano un nuovo canale distributivo. Bauli (merendine), Norda e Guizza (acqua), Pellini e Vergnano (caffè), Farchioni e Monini (olio), Curti e Scotti (riso), Algida e Sammontana (gelati), Maina (panettoni) sono soltanto alcune delle 1.500 piccole e medie imprese alimentari che commercializzano i loro prodotti con i loghi delle catene commerciali, anche straniere.

EFFETTO RISPARMIO

Per i consumatori il vantaggio lo si misura immediatamente quando si passa alla cassa. L'analisi Ambrosetti stima che i risparmi sulla spesa possano arrivare fino al 30 per cento rispetto alla marca industriale: l'anno scorso ogni famiglia italiana ha avuto un beneficio di almeno 100 euro senza tagliare le quantità acquistate né rinunciare alla qualità di quello che ha messo nel carrello. È una tendenza che dura ormai da una quindicina d'anni. «All'origine c'era semplicemente un miglior rapporto qualità/prezzo dice Domenico Secondulfo, docente di sociologia e psicologia dei consumi all'università di Verona -. I consumatori più avveduti controllavano i siti produttivi obbligatori sulle confezioni: perché pagare di più per il prodotto di marca? La gente si è convinta che la differenza di prezzo fosse dovuta non a una minore qualità, ma all'assenza dei costi pubblicitari. È stato sdoganato il low cost anche nel settore alimentare proprio negli anni della crisi economica. Un acquisto consapevole, essenziale». Con gli anni questo mercato si è segmentato. «Ora ogni catena ha numerosi marchi per caratterizzare i propri prodotti spiega Finzi -: c'è una fascia più conveniente, quella con caratteristiche superiori e anche quella premium, con prodotti di qualità. Esistono linee biologiche e senza glutine. Mentre all'inizio i distributori si rivolgevano soltanto ai clienti che spendevano meno, ora vengono replicate le tendenze del mercato di marca, sempre a prezzi inferiori dei brand». Non è una forma di concorrenza interna? Perché un produttore che vende con il suo marchio dovrebbe lavorare anche come terzista? «Il volume produttivo aumenta comunque garantisce Finzi con una migliore utilizzazione degli impianti e dei lavoratori. In Italia siamo al 35 per cento del mercato e ci stiamo avvicinando al 40 per cento che è la media dei Paesi europei».

BYE BYE PUBBLICITÀ

Accanto al prezzo, un altro fenomeno ha contribuito a consolidare questo nuove tendenze. Dice Finzi: «Visto che il maggior costo dei prodotti di marca è dovuto alle spese di comunicazione, nei consumatori è subentrata una certa sfiducia verso i produttori a vantaggio dei distributori. Le grandi catene commerciali si propongono come coloro che fanno i veri interessi di chi fa la spesa perché sono in grado di vendere prodotti di qualità a minor prezzo a patto di rinunciare al marchio, considerato un orpello. Il private label non è un no logo, ma un altro logo. Perché comunque si chiede una forma di garanzia per tutto quello che si mangia». È dunque la fiducia il fattore essenziale di questo acquisto. Un tempo ci si fidava del negoziante sotto casa, poi delle marche famose vendute ai supermercati, ora dei marchi distribuiti dai supermercati stessi. «È il modo con cui le catene fidelizzano il consumatore chiarisce Secondulfo -, lo prendono per mano e lo convincono che sono loro ad aver sostituito la figura del vecchio bottegaio e ciò che rappresentava. Pensiamo ai banchi dei supermercati con salumi, formaggi, carne e pesce: in fondo sono tutti prodotti che si trovano anche già confezionati e prezzati sugli scaffali e nei banchi refrigerati. Ma l'intermediazione del salumiere ha un alto valore simbolico perché personalizza il supermercato e lo avvicina al consumatore, come si vede in molte pubblicità.

Con i propri marchi la grande distribuzione si fa essa stessa garante tra chi produce e chi acquista».

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