Se non bastano 18 anni per ottenere giustizia

Una causa lunga diciotto anni. Una storia che comincia nel 1990 e arriva alla conclusione solo qualche mese fa, dopo un ultimo, incredibile, colpo di scena: la sentenza dev’essere riscritta perché il testo, il verdetto atteso così a lungo, mischia nomi e cognomi, confonde, ingarbuglia quel che avrebbe dovuto chiarire. Il giudice si è comportato come uno scolaro alle prime armi. Così, la parrucchiera che ha aspettato la giustizia per tutto questo tempo, deve pagare di tasca sua un’istanza di correzione degli errori materiali. Sì, avete capito bene. Errori, refusi, distrazioni, come se non bastasse quell’interminabile sfiancamento a cavallo di due secoli.
Il tutto, sia chiaro, per una vicenda ordinaria, quasi banale, come può esserlo un contenzioso aperto a proposito della legge sull’equo canone. Il canovaccio è semplice: la donna ha il suo salone in un locale preso in affitto in un paese dell’hinterland. Il suo sogno, come quello di molti nelle sue condizioni, sarebbe quello di comprare i muri e invece un bel giorno scopre che il padrone ha deciso sì di vendere, ma non a lei. La parrucchiera si sente scavalcata, interpella un avvocato e trova buone ragioni per avviare una causa: il legale sostiene che la legge sull’equo canone le garantiva una sorta di corsia preferenziale, il diritto di prelazione sul negozio. In sostanza, chi ha venduto avrebbe dovuto proporre anzitutto a lei l’affare.
Il problema è dimostrarlo in aula. Sembra semplice, ma l’impresa si rivela difficilissima. È una questione di tempi. Il procedimento si allunga anno per anno, anche se la storia non è particolarmente complessa. Anzi, si potrebbe chiudere molto rapidamente. Dopo un quinquennio passato invano, ecco avanzare i soccorsi. La causa viene affidata ad una goa, acronimo per giudice onorario aggregato, una figura emergenziale creata apposta per smaltire l’arretrato, tamponare le cause più vecchie e spingerle in qualche modo verso il verdetto. Il problema è che il goa a sua volta va in stallo. Per ragioni misteriose il verdetto slitta e supera la soglia, simbolica, dell’anno duemila. Alla fine la sentenza punisce la parrucchiera: il tribunale le dà torto.
La causa finisce in appello. E dopo altri tre anni, quasi uno sprint rispetto al round precedente, i giudici capovolgono il verdetto e premiano la pazienza biblica della signora: finalmente il negozio sarà suo; in questi anni, lei ha dovuto pagare il canone al nuovo proprietario, ora non sarà più così. La donna è soddisfatta, anzi felice. Ma i suoi guai non sono ancora finiti. Legge e rilegge la sentenza e si accorge che qualcosa non va. Non ci siamo, non del tutto. Qua e là sono sparpagliati errori fastidiosi. Nulla di drammatico, ma quegli sbagli devono essere corretti. Non resta che presentare un’istanza di correzione. A carico della vincitrice che non riesce a vincere. Umiliante, dopo tutto quello che le è capitato, ma alternative non ce ne sono.
E così, il verdetto viene sistemato, come un tema o un compito in classe. Se ne vanno quindi altri soldi e una manciata di mesi. Poca cosa rispetto ai diciotto anni precedenti.

Ma un’altra ferita per la giustizia che ha perso per strada la sua autorevolezza se non la sua credibilità. Così, fra un giudice e l’altro, fra un refuso e una correzione, finalmente il caso arriva al capolinea. Tanto, troppo tempo per una piccola storia, specchio di un malessere grande. Sempre più grande.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica