Se il vero amore è nelle memorie di una geisha

Se il vero amore è nelle memorie di una geisha

«A detta di molti sono stata la miglior geisha della mia generazione. Sicuramente sono stata quella di maggior successo. Eppure, la vita da geisha si è rivelata troppo soffocante. E così, alla fine, sono stata costretta ad abbandonarla. Questa è una storia che da tempo desideravo raccontare. Mi chiamo Mineko. Mineko non è il nome che mio padre scelse per me quando sono nata. È quello d’arte. Lo ricevetti a cinque anni». In effetti, che fosse un uomo a svelare per la prima volta il mondo di questa geisha poteva apparire un’ingiustizia, oltre che una violazione del tradizionale divieto giapponese. Per questo, la geisha più famosa del mondo, Mineko Iwasaki, nata a Kyoto nel 1949, dieci anni fa ha cercato di porre rimedio alla questione. Per vendicarsi al meglio del racconto che della sua vita il romanziere Arthur Golden aveva fatto in Memorie di una geisha (poi diventato un film di successo diretto da Rob Marshall), Mineko ha scritto il suo libro, Memorie proibite di una geisha (in uscita il 9 febbraio per Newton Compton, pagg. 336, euro 9,90).
In Italia il romanzo arriva soltanto ora e getta una luce nuova, meno morbosa ma di certo molto più ricca di deliziosi dettagli. Il suo primo giorno da geisha, ad esempio, il 15 febbraio 1965: avvolta, o potremmo dire, intrappolata, in un kimono di seta azzurro e arancio (i kimono arrivano a costare da cinque a settemila dollari, per vestire una geisha, spiega Mineko in un passo del libro) la giovane maiko - è l’appellativo di ogni geisha novizia - con i capelli acconciati a dovere in cima al capo e il volto sbiancato dal trucco pesante secondo la nota iconografia, appare come una fulgida star del cinema al codazzo di ammiratori che l’applaudono appena uscita di casa per affrontare la sua «carriera». Ha soltanto quindici anni.
Una scena inspiegabile se non viene completata con il racconto, tenero nella sua ferrea accettazione delle regole di una tradizione antica, che Mineko (abbinato a un «cognome», Iwasaki, che è l’etichetta della casa di geishe di cui fa parte) fa delle proprie «origini»: «La mia carriera iniziò molto presto. Gli eventi che accaddero quando avevo solo tre anni mi convinsero che era quello il mio destino. Mi trasferii nella casa di geishe Iwasaki a cinque anni e iniziai il mio apprendistato artistico quando ne avevo sei». Alla piccola Mineko piace la danza, è ciò che la fa andare avanti quando tutto le sembra perduto, ma soprattutto è una prima forma di disciplina che le fa comprendere quanto grande sarà la sua determinazione nel diventare la migliore.
L’autobiografia di Mineko - aiutata dall’orientalista Rande Brown - è un secondo debutto, di cui noi occidentali percepiamo tutto il paradosso, ma di cui la geisha ci fa comprendere «purezza» e inconsapevolezza. Grazie alla violazione in prima persona del codice di segretezza entriamo non soltanto nelle stanze private - una geisha non è una donna da letto, ed è questa la prima cosa che solo grazie alle rivelazioni intime della stessa Mineko riusciamo a capire e che Golden non fu in grado di sottolineare a sufficienza - che negli anni Sessanta rendevano circa 500mila dollari l’anno, frequentate da politici, celebrità, uomini d’affari (irresistibile il passaggio in cui Mineko incontra «il sarto italiano Aldo Gucci» per cui indossa uno speciale kimono di crêpe di seta nera, che si fa autografare sulla fodera rossa, rovinando un abito più costoso di quelli dello stilista), ma anche nella mente della donna che riuscì a fare dell’immagine un business incalcolabile, precorrendo i tempi di almeno mezzo secolo.
Il suo volto è apparso per anni sui poster pop, come Che Guevara, eppure Mineko sostiene ancora oggi che considerare la geisha una «prostituta» è «ridicolo». Con lo stesso spirito ha affrontato una causa con il suo «traditore-narratore» Golden che ha portato lui a un doloroso patteggiamento. Con lo stesso spirito giunge a un’affermazione di sconfinato romanticismo: «Ero troppo preoccupata per lui per pensare a me stessa.

Non potevo sopportare di stare a guardare il suo dolore e, alla fine, mi protesi verso di lui. Per la prima volta lo strinsi a me e lo sentii sprofondare completamente nel mio abbraccio. “Questa profonda vicinanza”, pensai, “è amore. È questo”».

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