Di solito, monsieur Jean Todt va interpretato. Stavolta no: «Mi dispiace», dice, «da questa gara, per noi, non viene fuori un solo dato positivo». Per cui non si salva la macchina, non si salvano le gomme, non si salvano neppure, e soprattutto, i piloti. Né Schumi, il figlio acquisito, né Felipe Massa, il talento gestito dal figlio vero, Nicolas. Nella franchezza del direttore generale del Cavallino sta tutta la grandezza di questa disfatta australe: «Dire che sono deluso è usare una parola piccola, io sono molto deluso. L’incidente di Massa al via è conseguenza delle brutte qualifiche di sabato e della partenza dalle retrovie, in mezzo al traffico; quello di Schumi è frutto della scelta sbagliata fatta sulle gomme... Adesso torniamo a casa con grandi danni sulla carrozzeria delle monoposto e grandi danni in classifica».
Stavolta, chi va interpretato è invece kaiser Michael Schumacher. E non sono le parole dette sulla gara, sulle gomme, sull’incidente a destare un filo di preoccupazione; sono quelle sul sorpasso subito da Vitantonio, massì, Vitantonio Liuzzi, un nome che sprigiona italianità e simpatia. Trattasi di un abruzzese piombato in F1 con un mondiale kart in tasca e un anno da cannibale in formula tremila. Vitantonio, massì, Vitantonio Liuzzi ha superato sua maestà Schumi e la regina Ferrari mentre correva al volante di una ex Minardi, ora fotocopia dalla Red Bull della passata stagione, e chiamata, con scelta un po’ da osteria, Toro Rosso. Ecco, il Toro ha sverniciato il kaiser, sorpasso all’interno, millimetrico, e via. «Non mi vergogno di aver subito quel sorpasso», dice Michael, «io avevo tanto sottosterzo causato da un’inchiodata precedente, lui era più veloce e gli ho dato strada...». Per la verità, una strada millimetrica, molto millimetrica. Non gli ha dato strada, è stato passato, battuto, sconfitto. Punto.
«Spero che quello non resti l’unico mio sorpasso in carriera», scherza Vitantonio a fine gara, «spero di farne tanti altri», aggiunge questo ragazzo che giusto qualche settimana fa aveva confidato: «Anche se porto l’orecchino e i jeans a vita bassa, non vuol dire che non possa anch’io vincere sette mondiali...». Ecco, Vitantonio, sverniciando il più grande, gli ha tolto di dosso quella patina divina che forse ci fa pensare sia e sarà sempre il più forte di tutti.
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