Il libro di Antonio Clericuzio, La macchina del mondo, è una ricca vetrina delle teorie e pratiche scientifiche dal Rinascimento a Newton: una ricognizione per lettori non specialisti, curiosi della storia del pensiero umano, che intorno alle stelle di prima grandezza tra 400 e 600, i Kepler, i Galileo, i Descartes, i Newton, vogliono vedersi aggregare la galassia dei «minori», e a corona delle idee forti e abbaglianti, le «rivoluzioni copernicane», gradiscono riconoscere il chiaroscuro degli ossequi alle tradizioni blasonate - di Aristotele, per citare la roccaforte più invitta - il riflusso verso concezioni retrodatate, lattaccamento di mestieranti e artigiani, seppure «alti», a filoni di sapere più plebei, esoterici e cabalistici, che non disdegnano gli apporti dellalchimia, della magia, della perizia degli oroscopi.
Perché la storia della scienza - questa è una delle principali idee-guida dellopera - è tuttaltro che lineare. Lintestazione stessa del volume è quasi gustosa parafrasi di titoli depoca, come il De humani corporis fabrica (la struttura, cioè la «macchina» del corpo umano), pubblicata nel 1543 dal gran perito settore Vesalio, fondatore dellanatomia moderna, spirito indipendente il quale, più che dei trattati galenici (allora indiscussa bibbia in materia), si fidava del bisturi e dei propri occhi, e rimanda a grandiose concezioni meccanicistiche, secondo le quali il cosmo è uno sterminato meccanismo a ingranaggi. Clericuzio ci dice che in questo secolo di fulgori e fermenti, di riscoperte classiche e di fughe in avanti, la mente del più duro e puro «scienziato» (ma il termine è anacronistico, la scientia rinascimentale balbetta ancora il sillabario aristotelico e i confini, anche accademici, tra i saperi restano nebbiosi) non abbandona mai del tutto lidea poetica che macro e microcosmo, universo e viventi, siano speculari, perché così vuole il disegno primigenio di Dio.
Letere che anima le immense sfere planetarie è lo stesso che gonfia il cuore umano pulsante. Menti capaci delle più ardite astrazioni matematiche, astronomi che secondo i canoni della scienza attuale (ma, in mezzo, tra noi e loro, lavorano duramente i rigori di illuminismo e di positivismo) dovrebbero essere al di sopra di ogni sospetto di fughe metafisiche o di concessioni a interventi soprannaturali, invocano sempre, quando sono alle strette, la mano del sempiterno manutentore, quel Dio che con laggiustatina alle sfere arrugginite rimette la baracca in moto e fa quadrare i conti.
Per Newton Dio sarebbe un orologiaio, si lamenta, sprezzante, Leibniz: per di più, un artefice inesperto, perché invece di imprimere al giocattolo un moto perpetuo, degno di lui, è costretto di tanto in tanto a oliare e ripulire le molle della macchina, se vuole che i Principia del britannico conservino il loro precario equilibrio tra lausterità legislativa dei dati matematici e gli scarti e le sorprese del controllo esperienziale. Rinascimento è Galilei, che osserva i fatti senza idee preconcette e codifica le sue veementi domande alla Natura in cristallino linguaggio matematico.
Il progresso è sussulto, tra zavorre antiche e originali pulsioni. Ragionava bene Newton: siamo nani, sulle spalle di giganti.
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