Segio prova a fare la vittima: «Carabinieri come i golpisti»

Ci sono ferite che il tempo non rimargina (e forse è giusto così). Pertanto accade che bastino un film e una intervista perché intorno alle imprese del terrorismo rosso nell’Italia tra gli anni Settanta e Ottanta torni ad infuriare la polemica. Personaggi principali, a ventisei anni di distanza dal loro primo incontro: Sergio Segio, leader di Prima Linea e dei Colp, esecutore materiale di numerosi omicidi, oggi dissociato e impegnato nel sociale; e Giuliano Tavaroli, allora brigadiere dell’Anticrimine, poi capo della sicurezza di Italtel e Telecom, arrestato nel 2006 e oggi sotto processo per i dossier illeciti raccolti dall’azienda telefonica. Ma intorno ai due protagonisti dibatte un coro composito e combattivo. Teatri del dibattito, ovviamente, Internet e Facebook. Da una parte e dall’altra, botte da orbi.
Tutto comincia il 20 novembre, quando approda nelle sale cinematografiche «La Prima Linea», film tratto dal libro autobiografico di Segio «Miccia corta». Prima ancora dell’uscita Segio si è già dissociato anche dal film, accusandolo di tradire lo spirito dei brigatisti di allora, lui compreso, che definisce «tardivi e coerenti epigoni di un’utopia» di cui la pellicola darebbe un ritratto superficialmente critico. Il giorno della prima, Tavaroli va a vedere il film. E in una intervista al Giornale, oltre a raccontare di essere stato lui - insieme a Marco Mancini, divenuto poi numero due del Sismi - ad arrestare Segio, nel gennaio 1983, critica apertamente l’immagine che il film dà dei terroristi: «Quello che è intollerabile in questo film, la falsità più grave, è questo clima sofferto, questa angoscia che precede e segue gli ammazzamenti. Invece era tutto il contrario. C’era l’esaltazione del militarismo e della violenza, si gasavano assassinando», dice Tavaroli nell’intervista al Giornale.
Sui gruppi di Facebook vicini a Segio inizia il brontolio. Ma il giorno dopo l’intervista di Tavaroli viene ripresa da Dagospia, sito assai diffuso di gossip alto e basso. A quel punto anche Segio reagisce: scrive a Dagospia attaccando pesantemente Tavaroli e la sua ricostruzione di quegli anni, e torna ad attaccare le colpe dello Stato. Tavaroli, dice Segio «dimentica, giusto per fare un esempio, l’11 dicembre 1980 quando il nucleo dei carabinieri antiterrorismo di Milano uccise i militanti delle Br Roberto Serafini e Walter Pezzoli, crivellati di colpi per strada \, dimentica l’abitudine di alcuni di quel “mucchio selvaggio” dell’Arma milanese di portare gli arrestati sulla montagnetta di San Siro o sotto i ponti di zona Certosa per finte esecuzioni, secondo gli stili tramandati dai gorilla golpisti sudamericani».
Nel giro di una manciata di ore, l’attacco di Segio finisce su Facebook, e sul fondatore di Prima Linea piombano decine e decine di giudizi assai severi: «Purtroppo continuano a trovare chi dia spazio al loro delirio. Sono convinto che non siano cambiati di un filo e che siano ancora potenzialmente pericolosi». E via di questo passo.
Giuliano Tavaroli non rinuncia alla controreplica, e ieri mette su Facebook una statistica: «Nella nostra repubblica sudamericana (vista da Segio) dal 1969 al 1989 le vittime del terrorismo sono state 429 (di queste 199 in stragi), i feriti circa 2000; 77 delle vittime erano agenti di polizia, 27 carabinieri, 10 magistrati, 5 agenti di custodia, 4 guardie giurate». «E di terroristi - aggiunge ieri pomeriggio Tavaroli - quanti ne saranno morti? Una decina a dire tanto.

La verità è che oggi finalmente scopriamo che Segio è un falso dissociato, ha usato la legge voluta dall’aborrito generale Dalla Chiesa per uscire dal carcere, ma è ancora lo stesso di allora. E il suo approccio verso chi non la pensa come lui ha ancora le modalità del processo proletario, quello che in genere si concludeva con un colpo alla nuca».

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