Il problema principale del Partito democratico, in questo momento, si chiama Quirinale. Perché il Quirinale è il più robusto e intransigente sostenitore del governo Monti, e il governo Monti, visto dal Largo del Nazareno, ha tre fondamentali caratteristiche: allontana elezioni già date per vinte, archivia la candidatura di Bersani a palazzo Chigi e, come se non bastasse, più prima che poi manderà in frantumi l’alleanza già traballante con Vendola e Di Pietro, ai quali basterà un fischio della Cgil per scendere in piazza e passare all’opposizione.
Certo, Berlusconi se n’è andato da palazzo Chigi: ma l’euforia è durata meno di una notte, e da domenica il Pd si arrovella e si contorce. La verità è che Bersani ha subìto la caduta di Berlusconi (nei piani del Nazareno, singolarmente coincidenti con quelli di Berlusconi, il governo doveva durare almeno fino a Natale, per consentire le elezioni a marzo), e ora deve subire l’ascesa di Monti. In entrambi i casi, la «colpa» è del presidente della Repubblica. Al quale gli ex «ragazzi di Berlinguer» che oggi dirigono quel che resta della ditta proprio non possono dire di no, visto che Napolitano li ha visti crescere e muovere i primi passi nei corridoi di Botteghe Oscure, e oggi giustamente li vorrebbe più docili di quel che sono.
Sembra che il capo dello Stato non abbia gradito, ieri, l’improvvisa smentita della voce che dava per acquisito il via libera del Pd a Gianni Letta. Nel mezzo di una trattativa aggrovigliata e fragilissima, Napolitano proprio non si aspettava che Bersani rompesse la consegna del silenzio per condizionare il lavoro del presidente incaricato. Tanto più che proprio intorno ai nomi di Letta (e di Giuliano Amato) si gioca una parte del successo dell’operazione-Monti.
Non solo: al termine del colloquio con il presidente incaricato, Bersani ha voluto sottolineare che se il nuovo governo nasce «per durare», non potranno esserci «solo lo spread e la Borsa a dettare l’agenda»: il segretario del Pd vuole anche la riforma elettorale, la riduzione dei parlamentari, le riforme istituzionali, per controbilanciare le «lacrime e sangue» che tutti si aspettano. Ma in questo modo si rendono le cose più difficili, perché se non è semplice un’intesa fra Pd e Pdl sull’emergenza economica, sul resto potrebbe rivelarsi impossibile. Insomma, l’impressione che Bersani continui a remare contro, seppur con discrezione e cautela, continua a preoccupare gli sponsor del governo tecnico.
Il Quirinale è convinto di due cose: non ci sono alternative al governo Monti, e l’unico modo per farlo funzionare (e durare) è ancorarvi il più strettamente possibile i due maggiori partiti.
Proprio le resistenze del Pd e del Pdl hanno spinto il presidente incaricato a rinviare a stamattina la presentazione della lista dei ministri, inizialmente prevista per ieri sera. Sapremo dunque soltanto oggi se Letta e Amato - il primo, se così si può dire, in «quota Berlusconi», e il secondo come tecnico/politico - faranno parte del nuovo esecutivo. Le ultime indiscrezioni dicono di no: i veti incrociati (e in particolar modo il veto di Bersani) avrebbero bloccato le due nomine. E anche questo non deve esser piaciuto molto al Quirinale.
Tra l’altro, il paradosso è vistoso: di tutti gli uomini che hanno lavorato con Berlusconi, Letta è senza ombra di dubbio l’unico che abbia ricevuto complimenti e riconoscimenti da quasi tutti i leader del Pd; quanto ad Amato, è stato presidente del Consiglio del penultimo governo di centrosinistra, appena dieci anni fa.
La chiave dell’interventismo di Napolitano, e della sua determinazione a piegare il Pd al proprio volere, potrebbe essere squisitamente politica. È infatti indubbio che la segreteria Bersani abbia imboccato da tempo una deriva massimalista, che l’alleanza con Vendola e Di Pietro abbia stravolto l’impostazione originaria del partito, e che in questo quadro il governo Monti sia anche l’occasione per ribaltare gli assetti interni del Pd e ridare fiato ai riformisti e ai moderati. Un ruolo chiave spetta in questo quadro a Enrico Letta (che Bersani avrebbe anche proposto come vicepremier), i cui rapporti con Napolitano sono frequenti e cordiali e il cui appoggio all’operazione Monti è convinto.
Ricordava in questi giorni un vecchio funzionario di Botteghe Oscure che quando il Pci decise, negli anni Settanta, il rinnovamento generazionale, i candidati alla successione di Luigi Longo erano due: Enrico Berlinguer, che Togliatti aveva voluto alla guida della Federazione giovanile, e Giorgio Napolitano, il pupillo di Amendola.
Secondo la leggenda, fu lo stesso Amendola a decidere le sorti della contesa, giudicando Napolitano non abbastanza determinato per il ruolo. Oggi Re Giorgio si prende la sua rivincita: se la sinistra ha un segretario, non c’è dubbio che risieda al Quirinale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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