Economia

«Il segreto dei Peugeot? L’azienda arriva prima degli interessi personali»

Enrico Artifoni

da Parigi

Ford, Psa Peugeot-Citroën, Bmw, Porsche e Fiat: nell’industria dell’auto, ormai si contano sulle dita di una mano le aziende in cui le redini del comando sono ancora in mano alle famiglie dei fondatori. Tra queste, solo il gruppo francese può vantare un coinvolgimento diretto della proprietà nella gestione che non è mai venuto meno. Sono otto le generazioni dei Peugeot che dalla fondazione a oggi si sono susseguite alla guida dell’azienda di famiglia, e cinque da quando, agli inizi del Novecento, Armand Peugeot cominciò a costruire le prime auto, al fianco delle biciclette e dei macinini da caffè. L’ultima, quella di Bertrand, Roland e Pierre, i tre fratelli che discendono dal ramo principale, ha mantenuto e persino rafforzato l’impegno e la presenza nei posti chiave. E i loro figli ne stanno imitando l’esempio. Come dimostra la recente nomina di Christian Peugeot, 53 anni, figlio di Bertrand, dal ’93 già direttore Marketing e Qualità del marchio omonimo, a capo anche del settore Comunicazione.
Signor Peugeot, il capitalismo familiare può avere ancora un ruolo oggi, in tempi di globalizzazione dei mercati, o è meglio lasciar fare tutto ai manager?
«Il nostro esempio dimostra che si possono fare entrambe le cose. Gli alti dirigenti, a cominciare dal presidente del gruppo Psa e dai responsabili dei marchi, sono esterni alla famiglia. Alcuni di noi sono invece nel consiglio di amministrazione, che ne sorveglia l’operato. Altri lavorano in azienda come manager. I ruoli sono ben definiti: si fa l’una o l’altra cosa. Periodicamente ci riuniamo per migliorare la comprensione reciproca. L’importante è che ciascuno dei Peugeot sappia stare al proprio posto. Grazie a questa organizzazione siamo riusciti ad assicurare quella continuità del management e delle scelte di fondo che è essenziale soprattutto per un’azienda che costruisce automobili».
Fino a che punto arriva l’autonomia di un manager di carattere come il presidente del gruppo, Jean-Martin Folz?
«Le grandi scelte vengono fatte dal consiglio di amministrazione e, a un livello più ristretto, dal direttorio. Quest’ultimo accerta che non vi siano problemi, in modo che il presidente possa procedere serenamente. Faccio un esempio: quella delle partnership, con alleanze mirate, è una politica accettata, che abbiamo deciso insieme. Monsieur Folz può gestirne lo sviluppo senza chiedere lumi ogni giorno alla proprietà. E lui ha dimostrato già ampiamente di saperlo fare bene».
In molti casi le grandi dinastie dell’industria si sono interrotte a causa delle liti tra gli eredi. La famiglia Peugeot, invece, sinora è apparsa sempre unita. Come si fa a mettere d’accordo una miriade di nipoti e pronipoti?
«Si dice che la prima generazione costruisce, la seconda sviluppa e la terza se ne approfitta. Noi siamo all’ottava come impresa, alla quinta nella fabbricazione di auto, e l’azienda è ancora in crescita. Il segreto è l’abitudine di ritenere che l’azienda sia un bene comune, che questo bene debba durare e sia più importante della convenienza dei singoli. Questo non significa che tutti i Peugeot debbano occuparsi dell’azienda o lavorare in essa. Difatti non è così. L’impegno di ciascuno è legato alle attitudini e alle qualità personali».
Il suo è frutto di una scelta o di una costrizione?
«Fino ai 12 anni sono cresciuto a Sochaux, vicino alla fabbrica che abbiamo nella nostra città d’origine, immerso nell’atmosfera della produzione di auto. Perciò mi è sembrato naturale entrare in azienda dopo la laurea. Ho cominciato a 24 anni, come operaio, sulle linee di montaggio. Il resto è venuto da sé».
Nel suo incarico attuale, lei ha dei superiori. Capita che qualcuno, in Peugeot, dica di no al signor Peugeot?
«Sì. E io rispetto le sue scelte. Il direttore generale Frédéric Saint-Geours, per esempio. Ci conosciamo da 12 anni...».
Nei confronti dei suoi collaboratori, il cognome che porta non le ha mai creato imbarazzo?
«Sta a me facilitare i contatti umani. Non voglio essere né troppo temuto né troppo gentile. Il cognome, comunque, cerco di non farlo contare mai».
Non le è mai venuta la tentazione di mollare tutto e godersi una vita agiata?
«Mio padre Bertrand ha 84 anni e tutte le mattine viene ancora in ufficio a lavorare. Io, magari, smetterò prima.

Ma il suo esempio non lo dimenticherò mai».

Commenti