Il segreto del falegname che fa suonare gli alberi

Era passato mezzogiorno da una ventina di minuti, il 19 luglio 1985, quando gli «alberi della musica» fra il Passo di Pampeago e il Passo di Lavazè smisero all’improvviso di suonare. Un boato funesto, un vento di morte. Pochi istanti dopo, 230.000 metri cubi di fango, acqua e detriti scesero verso valle alla velocità di 90 chilometri orari, portandosi via 28 bambini di neppure 10 anni, 31 adolescenti non ancora diciottenni, 120 donne, 89 uomini, 53 case, 3 alberghi, 6 capannoni industriali, 8 ponti. L’intero paese di Stava, frazione di Tesero, in Trentino.
In quella catastrofica colata, provocata dal crollo di due bacini di decantazione della miniera di Prestavel, Fabio Ognibeni, il falegname del «bosco dei violini», perse tre amici che appena un mese prima, il 16 giugno, erano presenti al suo matrimonio con Donata Ciresa, fra i quali il fidanzato di una testimone di nozze, Rolando, albergatore venticinquenne di Stava, che aveva accompagnato la sposa in chiesa con la sua Lancia Prisma nuova di zecca.
Gli abeti rossi no. I più pregiati, almeno quelli, si sono salvati tutti, perché stavano sul versante opposto della Val di Fiemme. Con essi è sopravvissuto anche l’antico mestiere di Ognibeni, 49 anni, costruttore di tavole armoniche, nato a Borgo Valsugana e cresciuto a Pieve Tesino, i due paesi che segnarono la vita di Alcide De Gasperi. Su circa 12.000 conifere che vengono abbattute ogni anno in questa zona, tocca a lui selezionarne non più di 150-200 e da queste ricavare 400-500 metri cubi di legname scelto di risonanza. In pratica, solo uno o due abeti ogni 1.000 diventano strumenti musicali. Nel mondo 160.000 tra pianoforti e clavicembali, 55.000 tra violini e violoncelli e 17.000 arpe suonano con una tavola armonica in abete rosso della Val di Fiemme costruita da Ognibeni a Tesero, nella piccola azienda che si chiama come il suocero defunto, Ciresa, unica in Italia e con due soli concorrenti in Europa, tanto che esporta il 94 per cento della sua produzione. È lui il fornitore dell’austriaca Bösendorfer, delle tedesche Bechstein, Bluthner, Förster e Sauter, della francese Pleyel, della giapponese Kawai, della cinese Sejung, della ceca Bohemia, della brasiliana Fritz Dobbert, oltre che dell’italiana Fazioli pianoforti di Sacile e della sanmarinese Schulze Pollmann. Stanno testando le sue tavole armoniche anche le esigentissime Stenway & Sons di Amburgo e Yamaha di Hamamatsu. Tra i suoi affezionati clienti c’è il top della liuteria internazionale, dai cremonesi Neumann e Bissolotti ai tedeschi Schleske e Schnabl, dal portoghese Capela al cipriota Pantelides, dallo statunitense Kelvin Scott al taiwanese William Lim, così come gli eredi del costruttore d’arpe più famoso del mondo, quel Victor Salvi, nato a Chicago da famiglia veneziana, che dopo aver suonato nella New York Philharmonic e nella Nbc Symphony Orchestra diretta da Arturo Toscanini, si trasferì in Italia per aprire un laboratorio prima a Genova e poi a Piasco, nel Cuneese.
In Germania chiamano Ognibeni «l’Antonio Stradivari del terzo millennio». Definizione impropria, perché non è un liutaio. Però qui in Val di Fiemme non c’è abitante che non dia per certa la presenza nella foresta incantata del leggendario maestro artigiano di Cremona, il quale ben conosceva le inimitabili peculiarità di questo legno e veniva di persona, almeno a giudicare dagli epistolari lasciati dai suoi eredi, a scegliere gli abeti rossi da trasformare in violini. Con la stessa curiosità reverenziale si sono avvicinati a Ognibeni i violinisti Uto Ughi e Salvatore Accardo, che possiedono uno Stradivari ciascuno, il pianista e compositore Giovanni Allevi, che prima di sfondare andava a esercitarsi in un laboratorio di restauro milanese su un Bösendorfer con tavola armonica marchiata a fuoco «Ciresa», il violoncellista Mario Brunello, il Quartetto di Cremona, il pianista jazz Stefano Bollani, il cantautore Zucchero.
Anche Benedetto XVI, che la sera si rilassa suonando Schubert sul suo vecchio pianoforte Furstein Farfisa (era la Ciresa a fornire le tavole armoniche alla casa marchigiana che lo produceva), ha avuto occasione di ammirare e ascoltare da vicino l’ultimo prodigio di Ognibeni, già coperto da brevetto nell’Unione europea e negli Stati Uniti, nonché in Cina, Giappone e Corea del Sud. Si chiama Opere sonore ed è un diffusore acustico che sembra una scultura, in grado di rimpiazzare gli impianti ad alta fedeltà sin qui conosciuti. L’inventore è partito da un’intuizione geniale: se il legno vibra e amplifica il suono di una corda percossa oppure pizzicata, perché non dovrebbe fare altrettanto con l’impulso elettrico proveniente da una qualsiasi sorgente audio? Così ha sagomato delle tavole dalle forme fantasiose e vi ha collegato ogni genere di apparecchio: lettori Cd, Mp3, Ipod, radio, giradischi, televisori. Il miracolo consiste nel fatto che le lamine di abete rosso riproducono il segnale sonoro a banda larga per sola vibrazione, senza altoparlante, con una pienezza e una rotondità mai udite prima da orecchio umano.
«Ho deciso di produrre 660 Opere sonore: di più non ci riuscirei», spiega Ognibeni. Per il momento ne ha assemblate una ventina, con tanto di numero seriale e anno di costruzione. Il problema sarà venderle: il modello Sogno, l’unico creato da un designer esterno, l’architetto francese Philippe Gendre dello studio Nyt Line di Lione, sarà anche un’opera d’arte ma costa la bellezza di 120.000 euro.
Si offende se le dico che resterei ancora su una 650i cabrio della Bmw che viene 10.000 euro di meno?
«Però la mia opera lignea suonerà anche fra un secolo, e meglio di oggi. Senza contare che servono almeno 200 ore di lavoro per realizzarla. Comunque c’è anche il modello Vela, 200 pezzi, il meno caro: 40.000 euro di listino».
Sempre tanti.
«È quasi pronta una versione per il grande pubblico. Si chiamerà Leonardo e non dovrebbe costare più di 7.000 euro».
Ma lei, oltreché un po’ boscaiolo e un po’ falegname, è anche un po’ musicista?
«Non so neppure leggere le note sul pentagramma. Però già a 16 anni d’estate lavoravo nei boschi della Valsugana: misuravo il diametro di tutte le piante per la predisposizione del piano economico forestale dei Comuni».
Studi?
«Perito industriale. Speravo che mio fratello, laureato in chimica a Padova, potesse aiutarmi. L’anno del diploma mi morirono entrambi i genitori, a cinque mesi di distanza l’uno dall’altro, per cui dovetti trovarmi subito un lavoro. Facevo il cannone umano sparaneve negli impianti di sci di Pampeago».
Il cannone umano?
«Le spiego. Allora non esistevano le diavolerie di oggi. Bisognava andare a raccogliere la neve nel bosco e portarla sulle piste. Lì conobbi la mia futura moglie, che lavorava all’ufficio skypass. Dopo il matrimonio, andammo a vivere al mio paese, Pieve Tesino. Mi misi a fare il chimico prima per uno stabilimento di piastrelle e poi per un’azienda di trattamento delle acque. Nel 1991, alla morte di mio suocero Enrico Ciresa, il commercialista chiamò le due figlie e disse loro: “Vi conviene chiudere”. Io mi opposi».
Per quale motivo?
«Mi sembrava un peccato che il patrimonio di famiglia andasse perduto. Mio suocero aveva lavorato come operaio alla Bozzetta, una fabbrica di armonium di Tesero. Nel 1952 s’era messo in proprio, arrivando a produrre 700 armonium l’anno. Era un accentratore, i suoi 14 dipendenti dovevano aspettare ogni mattina gli ordini. Non si rassegnava all’avanzare degli strumenti elettronici. Negli ultimi tempi i suoi armonium gli venivano a costare più di quanto li faceva pagare. Ma non demordeva. Non era il tipo. Era stato sindaco di Tesero negli anni Settanta ed era ancora assessore quando vi fu da gestire la ricostruzione dopo la tragedia di Stava. Neppure da morto ci avrebbe perdonato la chiusura della Ciresa. Alla fine, mia moglie, sua sorella Piera, sette dipendenti e io abbiamo deciso di tenerla aperta e di diversificare con le tavole armoniche».
Che ne sapeva di tavole armoniche?
«Nulla. Ho imparato tutti i segreti da Giuliano Mich, un pensionato che andava a scegliere gli abeti rossi per mio suocero. Vede, la verità è che nessuno sa che cosa siano le tavole armoniche. Se lei chiede a 100 persone che cosa fa suonare un violino, 98 le risponderanno: “Le corde”. Gli amici dell’Associazione italiana accordatori mi dicono che persino i pianisti sono convinti che siano le corde a determinare il suono del pianoforte. Se gli parli del cavalletto o del nottolino di scappamento, strabuzzano gli occhi. Non conoscono il loro strumento, alcuni non l’hanno mai neppure aperto per vedere com’è fatto dentro».
È il legno che suona.
«Esatto, la tavola armonica».
Perché gli abeti rossi della Val di Fiemme suonano meglio di qualsiasi altro albero?
«Dipende dal clima molto rigido lungo il versante nord-ovest della catena del Lagorai, dove batte poco il sole. Questo fa sì che vegetino poco, da giugno a metà settembre, e che gli anelli di accrescimento siano pertanto molto stretti. L’ideale per il legno di risonanza, che dev’essere elastico e particolarmente leggero».
Per non affaticare il violinista che tiene lo strumento appoggiato al collo?
«Per una legge fisica: quando forniamo energia a una lastra vibrante, questa la dissipa col quadrato della propria massa».
Mi sa che è meglio cambiare musica...
«Detto in parole semplici, più è pesante e meno a lungo vibra. Controprova: basta dare un colpo a una lastra di marmo e a una lastra di metallo. Nel primo caso il suono finisce subito, nel secondo si prolunga. Qui gli abeti crescono fitti, il che li obbliga a salire fino a 30-40 metri per cercare la luce. Essendo gli uni vicini agli altri, i tronchi sono molto dritti e privi di rami nella parte bassa. Una benedizione per le tavole armoniche: niente difetti di torsione, sacche di resina, irregolarità della fibra o nodi che frenerebbero la corsa del suono».
Di quanti alberi stiamo parlando?
«Sei milioni. Sono 20.000 ettari fra le Pale di San Martino e il Passo Manghen. Da un millennio una risorsa di vita per la vallata. Merito dei nostri antenati, che avevano imparato a tagliare il bosco in un certo modo affinché ricrescesse tutto uguale. Non c’è nessun’altra zona al mondo dove si riscontrino le stesse condizioni favorevoli».
Quando si tagliano gli abeti rossi?
«Si comincia a fine settembre e si va avanti fino a che non nevica. Il bosco che tagliamo oggi non sarà di nuovo pronto prima di un secolo. La Guardia forestale misura la quantità di legno che è ancora in piedi e impedisce che si abbatta più del 70 per cento del volume che è ricresciuto».
Il legno a chi lo paga? Allo Stato?
«No, alla Magnifica Comunità di Fiemme. E anche piuttosto caro: dai 220 ai 500 euro al metro cubo».
Altro che federalismo.
«La Magnifica è una vicinia, ossia una comunità agraria di vicini dell’epoca medievale, che amministra terreni e foreste di sua proprietà. Quest’anno compie 900 anni. Fu il vescovo Gebardo di Trento, nel 1111, a firmare i privilegi storici, detti appunto “patti gebardini”, che neppure Napoleone o l’imperatore Francesco Giuseppe riuscirono a cancellare. Fra questi, i diritti sui boschi. Le regole, cioè i Comuni, eleggono lo scario, il rappresentante legale della Magnifica. Una volta potevano votare solo i capifuoco, cioè i capifamiglia. Adesso sono accettati anche i single e le vedove, purché residenti in Val di Fiemme da almeno 20 anni. Quando nel 1991 cominciai a parlare di “alberi della musica” e di “bosco dei violini”, i regolani mi guardavano perplessi. Ciononostante mi lasciarono utilizzare sulle tavole armoniche il marchio storico della Magnifica, con la dizione “legno abete Fiemme”. Dal 1995 me l’hanno concesso in esclusiva. Dietro versamento di una royalty, si capisce».
Oltre a lei, chi altro conosce i segreti del «bosco dei violini»?
«Nessuno. Un sostituto non ce l’ho. Devo pensarci: invecchio».
Quante ore lavora al giorno?
«Dalle 7.30 alle 23».
Nell’era dell’Ipod, che spazio può avere la sua artigianalità?
«Il fatturato, un milione di euro l’anno, cala. Oggi c’è tanto consumo di musica, Mp3 e cuffiette ovunque, ma pochi che la fanno, e quei pochi preferiscono batteria e chitarra elettrica a pianoforte e violino».
Gli alberi che taglia chi li piantò?
«Gente di 250 anni fa, presumo, perché oltre quest’arco temporale l’abete rosso non vive».
Lei ne ha piantati?
«Mai».
Peccato. Il poeta cubano José Martí nell’Ottocento diceva che ci sono tre cose che ogni uomo dovrebbe fare nella propria vita: piantare un albero, avere un figlio e scrivere un libro.


«La terza è quasi fatta. Di figli ne ho due. Quanto agli alberi, mi riferivo agli abeti rossi. Ma di betulle, ciliegi, cirmoli e abeti bianchi, accidenti se ne ho piantati!».
(566. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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