SEGUE DA PAGINA 37

(...) ed è l’umanità. Non c’è un problema fra quelli affrontati da Bono che prescinda dall’elemento umano. E questo, in un’economia che è sempre più finanza e sempre meno azienda, spesso non viene apprezzato come meriterebbe.
Invece, il numero uno di Fincantieri riesce ad abbinare numeri e cuore. E riesce a passare indifferentemente dalla sacrosanta rivendicazione della quotazione in Borsa dell’azienda, l’unico vero rimedio all’alleanza fra i coreani e i rivali europei di sempre, all’acquisizione del colosso statunitense delle navi militari Manitowoc Marine Group, all’intuizione di diversificare nei megayacht, una di quelle scelte che fanno la differenza fra un manager che si limita a vivacchiare in porto e un manager conradiano che prende il coraggio a due mani e sfida il mare aperto, anche quando traccheggiare sarebbe più facile oltre che più comodo.
E così, anche nel momento della difficoltà, Bono non ha avuto paura di prendere il mare e di superare la linea d’ombra dell’azienda pubblica: «Questa è la rotta, questa è la decisione, questa è la direzione» cantava Jovanotti in Linea d’ombra, canzone che ha proprio in Conrad il suo ghost-writer. Poi, certo, ci sono i marosi e le burrasche: la crisi, ad esempio, ha portato all’annullamento di un ordine e colpisce anche un colosso come Fincantieri. Ma proprio la gestione manageriale dell’azienda pubblica, con lo stile del bonus pater familias, fa pensare che la crisi possa essere meno pesante che altrove.
Ad esempio, Bono è stato chiarissimo sul fatto che tutti devono fare sacrifici. Che i dipendenti Fincantieri - stimati in tutto il mondo per la loro straordinaria professionalità e per la qualità del loro lavoro - devono eliminare alcune sacche di inefficienza. Che, se tutti remano nella medesima direzione, sarà possibile ripetere gli stessi straordinari risultati. Che non è possibile pensare che i lavoratori delle ditte appaltatrici siano coperti da contratti di Fincantieri, cioè di un’impresa che non ha nulla a che vedere con le loro. Insomma, Bono si è dimostrato un vero duro. Uno che non ha paura di mettere i puntini sulle i per dire che non è possibile pensare che tutti abbiano diritto a tutto, magari senza fare nulla, solo perchè l’azionariato è pubblico. Da vero manager delle Partecipazioni Statali, nel senso migliore che questa parola ha saputo e sa avere, Bono pensa anche che le imprese pubbliche non sono il paese di Bengodi e che l’Eldorado non è nè in via Cipro, nè ai cantieri di Sestri Ponente, nè a Riva Trigoso, nè al Muggiano.
Poi, però, a questa linea giustamente intransigente, ha saputo abbinare tocchi di umanità. Da erede doc della migliore tradizione socialista, che non è certo la caricatura forcaiola che ne è stata fatta. Ad esempio, subentrando immediatamente nel pagamento di stipendi di una ditta dell’indotto fallita, che pure non gli spettava. Oppure, nell’attenzione (seria, non parolaia) ai temi dell’amianto e della sicurezza sul lavoro.
Anche qui, è il caso di essere chiari. Nei cantieri, gli infortuni sul lavoro accadono spesso. Per mille motivi, la maggior parte dei quali non ascrivibili all’azienda. Ma c’è modo e modo di affrontare i lutti. Dal canto mio, posso portare una testimonianza: l’ultima volta che ne è capitato uno in Fincantieri, ero in compagnia di Marco Cappeddu, prezioso collaboratore delle relazioni esterne dell’azienda, e quindi ho assistito in diretta alla scena.

Appena ha saputo della morte in uno suo cantiere, Giuseppe Bono ha annullato in un secondo una cerimonia solenne prevista per il giorno dopo.
Credetemi, non è retorica. In tanti non l’avrebbero fatto. In tanti non lo fanno. Bono ci ha messo un secondo. Questo è un uomo.

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