Sei anni di giallo-reality Tanti processi in tv e pochissime risposte

da Roma

La sera, la sera del 30 gennaio 2002, autorevoli esperti, fra quelli che poi avrebbero processato in tv la mamma di Cogne un giorno sì e l’altro pure, chiamarono il sottoscritto: «Si prepari a riscrivere l’articolo. Vedrà che stanotte la signora crolla e confessa. È un classico». Sono passati sei anni, Annamaria Franzoni non ha mai confessato, le sue lacrime, vere o verosimili, hanno riempito lo schermo e le conversazioni private. Dopo una mischia così prolungata, tentare un bilancio di questa storia vuol dire paragonarsi con i guasti della giustizia italiana: indagini approssimative e confuse, lente, troppo lente quando la velocità è la chiave del successo: il delitto avviene il 30 gennaio, Annamaria viene arrestata il 14 marzo. Le perquisizioni arrivano a scoppio ritardato, l’arma - un mestolo o un pentolino per l’accusa - non verrà mai trovata. E il movente?
C’inerpichiamo su una scala a chiocciola: l’accusa ha battuto simultaneamente due piste, alternandole e mischiandole, senza mai percorrere fino in fondo una delle due. A tratti la signora Lorenzi è stata dipinta come una mamma gelida, un’assassina spietata che mente e che ricorda tutto. Poi però si è cercato di dimostrare in tutti i modi che sia, o sia stata, anche solo transitoriamente, matta. O borderline o almeno assai stressata. La storia di questo processo è anche il catalogo dei tentativi, assai goffi in verità, di chiudere il cerchio e trovare una via d’uscita, un qualche compromesso. Invece, anche per il frastuono mediatico, il caso si è trasformato in un corpo a corpo. E i risultati, specie sul piano dell’approfondimento della personalità, appaiono pasticciati. Come balbettii.
Già nella fase cautelare, il Tribunale del riesame di Torino sconfessa il gip e ordina il 30 marzo 2002 la scarcerazione della donna. In primo grado, il 19 marzo 2004, il gip Eugenio Gramola stanga la donna condannandola a 30 anni. Del resto la perizia psichiatrica, la prima, l’ha descritta come una mamma capace di intendere e di volere. L’appello si apre a ventaglio rimettendo in discussione, nell’arco di ben 22 udienze, le certezze del primo grado. Una nuova perizia pschiatrica si svolge senza la collaborazione dell’interessata: si ipotizza un malessere e gli si dà anche un nome, stato crepuscolare orientato. Ma per quanto gli esperti spieghino, è difficile catturare con il retino della loro scienza la patologia. Alla fine i due giudici togati e i sei popolari stabiliscono che il cervello di Annamaria era funzionante. E allora? L’arma non c’è ed è buio anche sul movente, inadeguato per quella tragedia. Le prove, però, paiono sufficienti. E fanno 16 anni.
Il punto chiave è la casacca del pigiama, indossata a rovescio. La geografia delle macchie, per i carabinieri del Ris porta dritto alla madre. Per Carlo Taormina, storico difensore, i Ris hanno lavorato male. Malissimo. Peggio. Oggi i nuovi avvocati, Paola Savio e Paolo Chicco, usano un linguaggio conciliante ma arrivano alle stesse conclusioni: la metodologia usata, la Bpa, la bloodstain pattern analysis, sarà pure valida ma è stata impiegata male a Cogne. E dunque dà risultati sballati. Non per l’accusa: Annamaria Franzoni esce di casa per accompagnare l’altro figlio, Davide, a scuola, ma Samuele si sveglia e strilla. Lei torna indietro e per tranquillizzarlo indossa frettolosamente, a rovescio, la casacca. Poi il lampo di ferocia. Intorno alle 8.16 si allontana, rientra alle 8.24. Dopo 8 minuti. Troppo pochi per immaginare un’altra mano.
Per gli avvocati quegli 8 minuti bastano per l’assassino venuto da fuori. Che Taormina indica con nome e cognome: il figlio del vicino di casa che forse, sorpreso dalle urla impreviste del piccolo Samuele, acchiappa il primo oggetto a tiro, un sabot - uno zoccolo valdostano - o qualche altro arnese, e spacca la testa del povero bambino. Ipotesi.
Nel frullatore dei media. Già a luglio 2002 la Franzoni rivela a Maurizio Costanzo di essere incinta. È la prima clamorosa intervista di una donna double face: due volte vittima per gli uni, luciferina per gli altri. Il Paese è diviso: è troppo curata, va in tv ben pettinata, i pianti sullo schermo paiono a comando; il processo esce dai palazzi di giustizia e inonda la tv, fra plastici e fuori onda, poi torna indietro caricato di suggestioni, retropensieri e leggende metropolitane dure a morire come la parentela fra la Franzoni e la moglie di Prodi. La mamma di Cogne, una donna di paese, resta prigioniera di quel personaggio.

È con l’altra Franzoni, quella delle messe in piega, dei lacrimoni luccicanti e dei microfoni aperti, che si confrontano i periti e forse anche i giudici popolari, saturi di immagini deformate come pregiudizi. La Franzoni in carne e ossa a oggi è ancora un enigma.

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