SEMINERIO «Sicilia, mia isola rurale e ribelle»

L’autore, dopo un esordio (a 60 anni) applaudito dalla critica, annuncia il secondo romanzo

Mi sembra un buon momento per la letteratura italiana. Da una decina d’anni è tornato il gusto di raccontare «storie». Magari è vero che è stato il genere «giallo» a inaugurare questa nuova stagione, ma i gialli di oggi parlano di drammi, di uomini e di sentimenti. Personalmente, gli unici «generi» che riconosco sono il bello e il brutto. Insomma un buon momento, ne sono certo. Poi arriva anche Domenico Seminerio, con Senza re né regno (Sellerio). Una vera sorpresa. Anche perché questo è il suo primo romanzo e lui ha sessantun anni, ma la sua scrittura sembra il risultato di un lungo cammino. Poche parole, grande forza. Leggerezza e densità. Senza virtuosismi, tutto naturale. Una lingua essenziale che usa i vuoti, le ellissi, come fossero parole. Oltre alla trama, dalle parole stesse e dal loro ritmo emerge la storia - il romanzo - di un popolo.
Storie di siciliani, ma universali. Una scrittura che non avevo mai incontrato, e nemmeno immaginato, lontana dal mio temperamento, ma familiare. Una scrittura impregnata di «sicilianità», che però arriva a tutti. Seminerio non resta mai intrappolato nella sua «condizione», anzi ne esce senza intoppi, sa guardare le cose da fuori, e sa vederle dentro. Ogni frase scava in qualcosa, in un continuo fluire di immagini. Anche quando in poche righe traccia la storia dell’indipendentismo siciliano, senza retorica, con chiarezza, continuando a «narrare». Sono molto contento di sapere che il suo prossimo romanzo è già stato consegnato all’editore Sellerio.
La sua scrittura mi ricorda - non per somiglianza diretta, ma per l’equilibrio tra linguaggio asciutto e forza espressiva - quella di Fenoglio. Sente anche lei questa parentela?
«Di Fenoglio apprezzo sia l’invenzione di un tessuto linguistico permeato di termini e modi dialettali, sia la volontà di agire sul linguaggio con modi anti-impressionistici, di concentrazione espressiva. C’è Fenoglio, nella mia scrittura, ma ci sono anche diversi altri, come penso sia naturale per chi, come me, approda alla letteratura in età “tarda”. Ci sono i grandi siciliani, da Verga a Pirandello a Sciascia, qualcosa di Camilleri, e poi Vittorini e Brancati, nonché molti non siciliani, come Fenoglio, appunto».
Com’è arrivato a questa «lingua»? È stata una scelta o appartiene al suo temperamento?
«Avevo costruito la storia di Stefano, avevo delineato i personaggi e la trama, ma non riuscivo a trovare un modo soddisfacente per raccontarli. La lingua, e lo stile, sono nati per tentativi e molte correzioni, attingendo alle letture, alle strade, alle esperienze di vario genere, al carattere, chissà».
Dell’indipendentismo siciliano degli anni ’40, la maggioranza - io per primo - sa molto poco, anzi nulla. Secondo lei come mai? È un pezzo di storia di cui si parla poco per motivi precisi, o è solo una delle tante «dimenticanze» riservate alla Sicilia?
«È un argomento scomodo e capace, a distanza di più di mezzo secolo, di suscitare inquietudini, rimorsi e interrogativi su tante cose. Non è solo una storia siciliana, confinata entro le spiagge dell’isola, ma una storia tutta italiana, farcita di misteri e di occulte trame che, forse, solo la letteratura può tentare di investigare. L’indipendentismo siciliano fu un fenomeno serio, stravolto, nel giro di pochi mesi, dagli eventi che avvenivano fuori dall’isola e si evolvevano non certo a suo favore. Gli esiti negativi a cui il movimento approdò hanno fatto sì, però, che nessuno abbia più avuto voglia di parlarne».
Questo lavoro nasce da documenti storici precisi? O è solo una libera ricostruzione?
«Ho consultato alcuni testi e ho ripreso le testimonianze che ho potuto raccogliere nell’ambiente. Le interpretazioni dell’indipendentismo non sono certo positive e peccano quasi tutte, mi pare, di anacronismo, essendo state date solo sull’ultima fase del movimento, quella più screditata».
Il protagonista del romanzo fa una riflessione sulla differenza tra «separatismo» e «indipendentismo». Che differenza c’è?
«È invalso l’uso di parlare di “separatismo” e non di “indipendentismo”, perché il primo termine contiene in sé una sfumatura negativa, che vuole già essere un giudizio. Bisogna invece indicare il movimento col termine che rende conto della volontà dei partecipanti, che volevano non separarsi dall’Italia, ma tornare indipendenti dall’Italia, a cui l’avevano unita Garibaldi e gli interessi degli agrari isolani e della borghesia continentale. L’unione con l’Italia portò al popolo, secondo la testimonianza di molti autori, miseria, fame, tasse, burocrazia spesso rapace e infine l’autarchia mussoliniana, che confinò l’isola al ruolo di quasi “colonia”, destinata a fornire combattenti e derrate alimentari a basso costo».
Tomasi di Lampedusa, nel Gattopardo, faceva dire a uno dei suoi personaggi: «Per la Sicilia non c’è speranza». Cosa pensa di questa affermazione?
«Diversi autori siciliani, e i moderni media, sembrano essere affezionati all’idea dell’immutabilità delle condizioni dell’isola, dall’“ideale dell’ostrica” di Verga, al grido pessimistico della “irredimibilità della Sicilia” di Sciascia. Non è facile dare una risposta in poche battute. Bisogna ripercorrere tutte le tappe della straordinaria storia dell’isola e rendersi conto, intanto, che la Sicilia è un arcipelago, con diversificazioni assai profonde tra una zona e l’altra. Un arcipelago dove, per dire, prevale in alcuni strati delle coscienze il “tempo circolare”, con tutte le implicazioni che ciò comporta in campo sociale, economico, morale. Al fondo della cosa, per come la vedo io: la speranza c’è e ci deve essere, pur nella consapevolezza di un percorso aspro, difficile e lungo. È la stessa speranza, e non solo speranza, che ha animato Falcone e Borsellino e padre Puglisi e tutti gli altri martiri isolani...».
Il talento da solo non basta, ci vuole anche un po’ di esperienza: Senza re né regno è il suo primo romanzo, ma la sua scrittura ha la maturità di chi scrive da sempre. C’è una spiegazione a questo, o è solo una fortunata coincidenza di fattori?
«In realtà ho sempre scritto. Articoli, studi di storia e archeologia, pure due poemetti pubblicati nell’82 e nell’85. Sono esperienze che mi hanno consentito di tenere in esercizio la penna...».
Come mai alla tenera di età di sessantuno anni ha deciso di mettersi a scrivere romanzi?
«La storia era bella e “nuova”, o tale mi sembrava, e avevo trovato il modo e, finalmente, il tempo per raccontarla. Il risultato m’è parso non ignobile e così mi sono deciso a tentare l’avventura. E poi, non ha detto Goethe che uno scrittore è tale a sessant’anni? Considerato l’allungamento della vita media rispetto ai tempi del poeta tedesco, posso dire d’essere quasi in anticipo...».
Qual è il primo libro che ha letto, e quando è stato?
«Forse Cuore, avrò avuto sette anni circa, mi pare un regalo per la prima comunione. Mi appassionarono soprattutto i racconti mensili, mentre saltai a piè pari tutto il resto».
Ha in preparazione un prossimo romanzo?
«Ho già consegnato a Sellerio un secondo romanzo.

È una storia che si svolge su un doppio binario temporale, il presente e il passato assai remoto, ambientata ancora in Sicilia. Una Sicilia apparentemente diversa e lontana dalla cronaca. Ho adeguato, però, lo stile al nuovo contenuto».

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