Avendo esaurito gli argomenti, per restare sulla breccia Umberto Bossi rispolvera un intramontabile cavallo di battaglia: l'insulto. Un genere di cui è insuperabile maestro. Titoloni su giornali e tg, video che spopolano su internet, masse di italiani scandalizzati sotto l'ombrellone che (s)parlano di lui. Il fine dicitore gongola. Un po' meno il suo collega ministro Renato Brunetta.
Quel «nano di Venezia non romperci i coglioni» lo colloca in ottima posizione nella sala dei trofei padani. Fa il paio con lo «stronzo» affibbiato a Garibaldi e pure a Casini (per il quale Bossi era «un trafficante di quote latte»), mentre più riguardo («quattro stronzetti») hanno meritato i funzionari europei «che ritengono il popolo un bue che deve fare quello che dicono loro, un illuminismo imbecille, stupido, che si taglia i coglioni».
Il popolo bastonato, ovviamente, vive in Padania perché quello che affolla «Roma ladrona» non è bue ma maiale. «Basta con la sigla Spqr, Senatus popolusque romanus. Io dico: sono porci questi romani», sentenziò il Senatùr l'anno scorso liquidando a Lazzate (occhio all'iniziale), durante una selezione di Miss Padania, l'ipotesi di trasferire nella capitale il gran premio di Monza. Era una frase copiata da Asterix, forse su suggerimento di Borghezio/Obelix.
L'insulto bossiano copre tutta Italia, presente e passata. Vent'anni fa «democristiani, socialisti e comunisti» erano «gentaglia» che andava «spazzata via a calci in culo, gente da ammazzare, da tirar giù dalle spese, da portare in piazza, da fucilare». In quel periodo Berlusconi era «un mafioso» e «i quattrini che fecero la Fininvest venivano da cose oscure, da Cosa nostra». Il povero Gianfranco Miglio, mite ideologo del federalismo escluso dal primo governo Berlusconi a favore di Speroni, fece la fine dell'autostrada a Vancimuglio: coperto di letame. Bossi proruppe in un crescendo rossiniano. «Me ne fotto delle minchiate di Miglio, un arteriosclerotico, traditore, non è un ideologo ma un panchinaro», tuonò fino al celebre acuto: «È una scoreggia nello spazio».
Alemanno, sindaco di Roma, è «un questuante che piange». Pisapia, collega di Milano, «un matto». Per Fini, Formigoni e Di Pietro non servono parole, basta una pernacchia a favore di telecamera. Franco Marini, presidente del Senato candidato a guidare un governo tecnico dopo Prodi, si guadagnò un «meglio stare lontani dai morti, i cadaveri portano a fondo». I giornalisti, abbiamo appreso lo scorso giugno a Pontida, sono «coglioni che scrivono falsità, lecchini di Roma padrona, leccapiedi del sistema» mentre i suoi colleghi parlamentari sono «delinquenti che in aula vi trattano da ladri e farabutti mentre i farabutti sono loro». Stia attento soprattutto Bersani: «Spero che la Lega abbia la spada curva così non se lo piglia in quel posto». Naturalmente lo Stato italiano è «truffaldino» e «fascista» e la bandiera serve «a pulirsi il culo». «Quel suo tricolore lo metta al cesso, signora», fu l'invito rivolto dal palco galleggiante di Venezia a Lucia Massarotto, immediatamente trasformata in una pasionaria antisecessione.
Ce n'è anche per i «loschi magistrati», ma lì sono guai. Agostino Abate, pubblico ministero a Varese, ebbe 403 milioni di lire come risarcimento dopo che Bossi promise di «raddrizzargli la schiena» per avere indagato il leghista Giuseppe Leoni negli anni di Tangentopoli.
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