Senza sorprese

La sentenza di morte per Saddam Hussein è tutto fuori che una sorpresa. Né lo sono le reazioni di un po’ tutte le parti più o meno interessate. Era prevedibile che ne gioisse il capo del governo iracheno, sciita perseguitato, parenti uccisi nelle repressioni del dittatore abbattuto. Era anche scontato che alla soddisfazione si unisse la Casa Bianca, che ha definito quello del verdetto «un grande giorno per l'Irak». E non lo è, infine, la riserva espressa dall’Unione Europea e la sua immediata richiesta di commutazione della pena. Non c’entra solo la politica in questo divario: si tratta di una differenza culturale che non morirà con Saddam Hussein e non è nata con i suoi crimini e il suo singolare processo. Per il mondo musulmano e per l’opinione pubblica americana la pena di morte è una cosa accettabilissima, anzi in certi casi auspicabile. Per la sensibilità degli europei essa è un relitto di costumi passati, che tendiamo a considerare «barbarici». Dimenticando magari che anche i nostri codici prevedevano la pena capitale fino a mezzo secolo fa per l’Italia patria di Beccaria, a una data molto più recente per la Gran Bretagna, con le sue impiccagioni e la Francia con la sua ghigliottina.
Le sensibilità si sono differenziate più tardi e hanno messo radici, del che non si può non compiacersi. I Paesi del Terzo Mondo, inclusa particolarmente l’area islamica, non si sono mai posti questo problema, ma per l’America non è così: poco più di trent’anni fa la pena capitale fu abolita negli Stati Uniti per decisione della Corte Suprema, durante anni di presidenza repubblicana, di Richard Nixon e Gerry Ford. Se è tornata è stata a furor di popolo, Stato dopo Stato, per scelta dei Parlamenti o direttamente del popolo tramite referendum. Non è interamente escluso che la tendenza si capovolga di nuovo un giorno e che l’America torni a mettere al bando quella che fu definita «pena crudele e inusuale». E non è neppure escluso, di converso, che in qualche Paese europeo, se la domanda fosse fatta oggetto di un referendum, non si troverebbe una maggioranza favorevole al ritorno alla forca. Ma a livello di élite il contrasto di vedute è oggi profondo e inconciliabile.
Una volta tanto non c’entra la politica, almeno nel senso più ristretto e banale del termine. Non ci sono dispetti né tracotanze. Il no europeo alla esecuzione di Saddam Hussein non può essere confuso, come accade invece quando ci sono «mobilitazioni» a proposito di altri dittatori o terroristi, con una simpatia politica: è una questione di principio, una routine. Così come l’indubbia approvazione di gran parte degli americani non ha a che vedere (nonostante che la data del verdetto possa suscitare qualche dubbio) con la campagna elettorale o il voto di domani.
Negli Stati Uniti la camera a gas o l’iniezione letale «spettano» a un assassino o uno stupratore particolarmente efferati e dunque non c’è da attendersi una protesta quando si tratta di un tiranno giudicato non per «crimini di guerra» e altre categorie discutibili, ma per un indiscusso crimine in tempo di pace. Né ci si poteva attendere una reazione differente da parte di Bush, che alla pena di morte è sempre stato favorevole, e che quando era governatore del Texas si è sempre rifiutato di accedere alla richiesta di grazia in extremis dei condannati (imitando in questo il suo predecessore alla Casa Bianca Bill Clinton, che interruppe addirittura una campagna elettorale per precipitarsi nella capitale del suo Arkansas ad autografare il suo no). Tanto più che, e neanche questo ce lo possiamo nascondere, la sentenza contro Saddam Hussein è fra le poche «buone notizie» che siano arrivate a Washington dall’inizio dell’avventura militare in Irak. È la terza, per essere precisi. La prima fu quando Saddam fu detronizzato dall’attacco americano e la sua statua fatta rotolare nella polvere di Bagdad. La seconda fu quando egli fu catturato da soldati Usa. In ambedue i casi ci si aspettava, di conseguenza, una «svolta» favorevole nel conflitto, che per la verità non è venuta. L’esperienza ha nel frattempo insegnato a Washington di non farsi più illusioni in proposito. Se la scelta di tempo nel verdetto può lasciare, come accennato sopra, qualche sospetto di scelta elettorale, la sentenza stessa non poteva essere altra. Non si punisce con qualche anno di carcere un crimine del genere e l’alternativa era dunque soltanto l’assoluzione, egualmente impensabile. Quello che non è certo è che la ricaduta psicologica sarà favorevole. Molte volte ci si è sbagliati a interpretare gli umori e la sensibilità degli iracheni e dei loro vicini. Si è imparata la lezione, tanto è vero che prima della sentenza Bagdad è stata messa in stato di assedio per ogni eventualità, nel giustificato timore di nuove esplosioni di violenza. Non, va precisato, da parte del «popolo iracheno», che non è mai esistito e che difficilmente potrà nascere dalla ormai inevitabile frammentazione di uno Stato artificiale, bensì delle varie comunità etniche e religiose che lo compongono o meglio lo componevano.

L’atteggiamento coraggioso e sprezzante del condannato potrà incoraggiare i «nostalgici» sunniti a intensificare terrorismo e guerriglia, gli sciiti potranno replicare con altri gesti di sanguinosa pulizia etnica; ma queste sono conseguenze di una guerra e di un pezzo di storia sbagliata. Non di una sentenza sfortunatamente priva di alternative.

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